La Nuova Sardegna

Fotografare l’assenza: gli orfani in Moldavia

di Paolo Curreli
Fotografare l’assenza: gli orfani in Moldavia

Il reportage di Myriam Meloni che ha vinto il primo premio del Sony World Photography 2014

26 maggio 2014
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SASSARI. Il mondo raccontato da Myriam Meloni nel fotoreportage “Behind the Absence” è sulle pagine dei giornali e in rete in questi giorni. L’Huffington Post ha reso noto il dramma degli orfani bianchi dell'est, bambini che crescono senza genitori, più spesso senza una madre perché costretta ad emigrare. Questo dramma è già una patologia con un nome, si chiama “Sindrome Italia”. Secondo l’associazione delle madri romene in Italia sono 40 i bambini suicidi per solitudine nella sola Romania. L'associazione ha messo a punto un programma che si chiama “La mamma ti vuole bene!” coinvolge le biblioteche romene, dove i bambini possono trovare un computer per parlare via Skype con le mamme distanti.

Lo struggente reportage di Myriam Meloni in Moldavia – che aveva già percepito questa tragedia – è stato premiato con il Sony World Photography Awards 2014 nella categoria Lifestyle. La fotografa cagliaritana ha documentato per tutto il 2013 la vita di questi bambini, ha attraversato la Moldavia, la regione più povera dell’Europa dell’est, a bordo di una sgangherata Zigulì. É entrata nelle case accolta dai nonni che crescono i loro nipoti, ha percorso i tristi dormitori di orfanotrofi sovietici costruiti per accogliere gli orfani della seconda guerra mondiale, dove molti questi bambini vivono.

«Malina ha 40 anni, viene dalla Moldavia e come molte sue connazionali ha riposto nel lavoro all'estero tutte le sue speranze – . Scrive la fotografa – Ha trovato un lavoro nella casa di un anziana malata di Alzheimer. La necessità di mandare i soldi a casa la fa andare avanti. Gli anni passano, lontano dal marito, dai figli, dall'affetto, da tutto. Un giorno Malina riceve una chiamata: la maggior parte del danaro che per anni ha mandato a casa è andato perduto. Truffa e impotenza. I sacrifici di mesi andati in fumo: Malina crolla, non ce la fa più, inizia a bere. Da quel momento tutto va storto: depressione, licenziamento, umiliazione».

È stata questa storia che l'ha spinta a partire?

«Sì, mi sono chiesta cosa sappiamo delle mille “Malina” che lavorano nelle nostre case, cosa sappiamo della loro storia. Il progetto è iniziato così, con l'esigenza di capire e raccontare quello che non vediamo o non vogliamo vedere, di un fenomeno migratorio del quale siamo parte».

In molti pensano che il fotoreportage abbia perso forza nell'epoca della post produzione (mi riferisco al world press photo 2013 dove il fotografo vincitore è stato accusato di aver manipolato troppo l’immagine) è vero che la foto non rappresenta più un documento inequivocabile della realtà?

«Mi chiedo se la fotografia abbia mai rappresentato un documento inequivocabile della realtà. Penso all'immagine di Daguerre del Boulevard du Temple, che, a causa dei lunghi tempi di esposizione necessari all'epoca, ci propone l'immagine di una Parigi fantasma. Con gli avanzamenti tecnologici non ci sono più queste limitazioni, ma accettare incondizionatamente l'idea che la macchina fotografica riproduca fedelmente la realtà, significa dimenticare che ad attivarla ad inquadrare ed a decidere il momento dello scatto, è comunque un essere umano, con la sua storia i sui pensieri e la sua sensibilità. Quindi la realtà che ci viene restituita attraverso l'immagine, è sempre e comunque una realtà reinterpretata. Fotografia come documento? Si, ma con le sue limitazioni! In quanto alla questione, più specifica della post produzione e la tendenza al pittorialismo che si è criticata ampiamente nelle ultime edizioni del world press photo, dovremmo porci delle domande su quelle che sono le tendenze del mercato e su quanto, una cultura visuale dominata spesso da un estetica pubblicitaria, stiano influenzando il modo di lavorare dei fotografi».

Quanto incidono e hanno inciso i luoghi nel suo lavoro, quanto le atmosfere cambiano il suo modo di percepire l'immagine?

«Per me la fotografia è un ballo con la vita: con persone, colori, paesaggi. Mi piace lavorare sul lungo termine proprio per avere modo di assorbire il più possibile le peculiarità, l'energia e l'atmosfera dei luoghi in cui lavoro».

Nel suo lavoro si percepiscono due diversi modi di raccontare, uno quasi distaccato (come in "Limousine" che le valse il Sony Award nel 2013) dove i soggetti si avvicendano davanti all'obiettivo, che non cambia quasi mai posizione, e infine, una maniera più empatica e coinvolgente ...

«Penso che ogni storia abbia un suo linguaggio, una sua struttura: nel lavoro della limousine per esempio, l'idea era quella di parlare della necessità di apparire. Chi affitta una limousine lo fa per “fare scena”, per l'apparenza. Volevo rispettare questa volontà, e ritrattare le persone per quello che vogliono mostrare di se. Per questo ho deciso di fotografare in maniera meccanica mantenendo una certa distanza con i soggetti che avevo davanti, senza scavare nei loro sentimenti, la loro vita, le loro storie. Nell'ultimo lavoro chiaramente le motivazioni erano diverse: volevo parlare della migrazione e del più silenzioso dei suoi effetti collaterali: l'assenza. L'assenza non si vede, è un sentimento, uno stato d'animo, e per poterlo trasmettere ho sentito la necessita di avvicinarmi il più possibile al quotidiano delle persone protagoniste del mio racconto».

Lei è giovane che rapporto ha con le 36 pose della pellicola le ha mai usate?

(Ride)…«Certo sono giovane, ma non tanto da essermi persa le 36 pose, i laboratori improvvisati nel bagno, l'odore acido dei prodotti per lo sviluppo, ed il magico momento in cui su un foglio bianco si iniziano a delineare i contorni di un immagine. In quest'epoca si sovrapproduzione digitale, sono sempre più tentata dal fare un passo indietro verso l'analogico. Non credo essere una fotografa compulsiva, però non c'è dubbio che il digitale invita a catturare molte, troppe volte la stessa scena. Da qualche anno ho sempre più voglia di scattare in medio formato analogico: per il tipo di fotografia che mi interessa non ho bisogno di 24 punti di messa a fuoco ne 10 scatti al secondo. Vorrei riprendere la coscienza che un numero di pose limitate impongono. I costi sono l'unico freno».

Che spazio esiste in Italia per un fotoreporter, i giornali sono interessati, ci sono differenze col resto del mondo?

«Ho iniziato la mia carriera in Argentina, dove ho poi vissuto 4 anni, e adesso, da un anno vivo in Spagna. Devo dire che non ho avuto modo di farmi un idea chiara e precisa del mercato dell'editoria italiana. Vedo che si stanno producendo lavori complessi, interessanti e di qualità: lo spazio per la diffusione cartacea di questi lavori è sempre meno, in Italia probabilmente meno che in Inghilterra ed in Germania, ma la crisi è generale».

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