La Nuova Sardegna

Luigi Berlinguer e la scuola: «Senza qualità niente equità»

di Anna Sanna
Luigi Berlinguer e la scuola: «Senza qualità niente equità»

L’ ex ministro e professore presenta il suo libro “Ri-creazione”: «L’abbassamento del livello nell’istruzione colpisce le famiglie più svantaggiate»

08 maggio 2014
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«Ci vuole una rivoluzione profonda nella mentalità dell’istruzione italiana, sia per come la percepisce il popolo, sia per come la praticano studenti e docenti». Un cambiamento urgente e necessario, ma soprattutto possibile secondo Luigi Berlinguer. Nel suo ultimo libro “Ri-creazione. Una scuola di qualità per tutti e per ciascuno” (in collaborazione con Carla Guetti, edito da Liguori) riflette sulla scuola e su cosa sarebbe necessario per il suo rilancio, a partire dalle buone pratiche che si stanno già sperimentando in molti istituti italiani.

«Il titolo del libro è “Ri-creazione”, il che significa che la scuola è un momento di gioia, in cui si ricrea il proprio spirito non soltanto studiando, ma vivendola insieme – dice Berlinguer – però è anche sottotitolato “Una scuola di qualità per tutti e per ciascuno”: vuol dire che se manca la qualità non è una scuola. Se manca la qualità a perderci sono i figli delle famiglie più svantaggiate. Non c’è equità se non c’è qualità».

Nel libro, quale strada traccia per ri-creare la scuola?

«La strada maestra è quella di uscire dalla tradizione di una scuola in cui si trasmettono conoscenze dal docente agli studenti, che sono chiamati semplicemente a registrarle. Il passo avanti è quello di fare una scuola in cui si cerca di capire oltre che imparare: il metodo che oggi si afferma di più nel mondo evoluto è quello di affrontare i problemi, non tenendo troppo separata una materia dall’altra, imparare a porsi delle questioni e cercare di risolverle, anche sbagliando. Il motto più bello lo ha detto una grandissima italiana che si chiamava Maria Montessori, dimenticata: “Impariamo a fare da soli”. A farlo da noi, con un aiuto indispensabile del maestro, che sa, ma non si sostituisce al pensiero del discente. Anzi, che stimola questo pensiero».

Come si fa in pratica?

«Bisogna cambiare il modello. Per esempio, non lasciare le aule come sono adesso, una a fianco all’altra tutte uguali, equiparando una lezione di fisica a una di letteratura, o una lezione di storia a un esperimento di chimica. Sono cose molto diverse, ognuna delle quali deve avere una metodologia propria, e chi impara deve costruirsi il percorso, sempre con l’ausilio di chi sa. Deve essere protagonista di se stesso, si deve responsabilizzare, deve cercare soluzioni. Sempre con lo studio delle materie, ma non come dei manufatti prefabbricati e chiusi».

In Italia ci sono già delle scuole che stanno mettendo in campo queste innovazioni?

«Ci sono centinaia di scuole che stanno sperimentando questa strada, grazie a dirigenti e insegnanti.

Perché in Italia ci sono migliaia di docenti straordinari: nonostante le difficoltà, la mancanza di soldi, la burocrazia della politica nazionale che non vuole cambiare, non si lasciano scoraggiare e introducono l’innovazione permanente, quella che noi abbiamo chiamato la laboratorialità. Cioè che la scuola è un laboratorio permanente, un laboratorio come forma di apprendimento».

Nel libro parla anche delle diverse culture che si dovrebbero coltivare a scuola?

«La cultura umanistica, la cultura scientifica, e soprattutto la necessità di testare la curiosità degli alunni di fronte ai fenomeni della natura. E poi bisogna sollecitare le emozioni, non solo il ragionamento. In Italia con la nostra scuola abbiamo bandito l’arte, che non è considerata cultura da studiare e da praticare.

Da noi non si impara a suonare uno strumento, mentre in Germania la metà della popolazione suona, partecipa a orchestre, e la Germania ha un Pil che è infinitamente più alto di quello italiano. Queste cose vanno di pari passo. L’aver mutilato la scuola nei confronti dell’arte e della musica è il segno di come si mutila l’intera economia del Paese».

In una recente statistica di Almalaurea sulle lauree meno utili ai fini occupazionali, ai primi posti figurano Giurisprudenza, Psicologia, Lettere, Scienze Sociali. Gli studi umanisti non hanno davvero più un futuro?

«Dipende da come si studia l’area umanistica. Se sparisce l’area umanistica sparisce la scuola e sparisce la vita.

Si mangia anche poesia, musica, arte. Sono elementi vitali. Se uno capisce la poesia o sa suonare uno strumento, impara di più la matematica e le scienze. E può lavorare meglio. E questo l’hanno imparato i tedeschi, gli scandinavi, i coreani, i finlandesi. Noi siamo fermi al passato».

Il ministro dell’Istruzione Giannini ha annunciato un nuovo concorso per docenti nel 2015. In quello precedente e anche nell’accesso al percorso abilitante dei Tirocini Formativi Attivi la prima selezione è avvenuta con dei quiz. Cosa pensa del reclutamento dei docenti sulla base di una conoscenza nozionistica?

«Prima di sperimentare un docente bisogna certamente fargli un esame sulla sua materia, ma se ci limitiamo soltanto a questo noi non reclutiamo il docente giusto. L’unico modo è vederlo al lavoro, fare un periodo in cui va in classe sotto la supervisione di un docente esperto e dialoga con i ragazzi. Con questa impostazione sarà più facile valutare se un docente è bravo o no. Con un quiz è infinitamente più difficile. I paesi che sono andati avanti hanno dedicato ai docenti 10 anni di lavoro, la Finlandia per esempio, perché si preparassero a questa nuova scuola. La questione degli insegnanti è la questione principale della scuola, sono loro che possono realizzare il cambiamento. In molti paesi lo hanno fatto, in molte scuole italiane si sta sperimentando, vuol dire che è possibile. Il libro dimostra che queste idee, che sono rivoluzionarie, si possono realizzare e hanno già avuto successo».

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