La Nuova Sardegna

Milena Agus: "C'è una violenza che nasce dall’ingiustizia"

di Costantino Cossu
Milena Agus: "C'è una violenza che nasce dall’ingiustizia"

A Sorso la scrittrice presenta il libro scritto insieme con Luciana Castellina

06 maggio 2014
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SASSARI. «Uno sparo. Forse due, uno e poi un altro. Da un'arma puntata sulla folla raccolta in piazza in attesa del discorso di Giuseppe Di Vittorio che, dopo tre giorni di scontri violenti – con morti e feriti da ambo le parti, braccianti e agrari – avrebbe dovuto salutare la normalità ritrovata grazie a una difficile mediazione». Così Luciana Castellina comincia la ricostruzione dei fatti che il 7 marzo del 1946 ad Andria, in Puglia, portarono al linciaggio di Luisa e di Carolina Porro, appartenenti a una famiglia di agrari.Dal loro palazzo erano partiti i colpi. Colpevoli, per la folla inferocita. Vengono massacrate per strada mentre cercano di fuggire. Altre due sorelle Porro, Stefania e Vincenzina, si salvano miracolosamente.

La storia viene ora ricordata in "Guardati dalla mia fame" (Nottetempo, 207 pagine, 15 euro), un libro che insieme alla dettagliata ricostruzione storica di Luciana Castellina contiene un racconto sulla vita delle quattro sorelle Porro affidato a Milena Agus. Un testo, quest’ultimo, nel quale realtà e invenzione si intrecciano in un meccanismo narrativo che penetra la dimensione più personale dei fatti di sangue di quella lontana giornata del secolo passato. Un equilibrio non semplice da costruire, che Agus è riuscita a raggiungere con tecnica sicura.

La voce narrante del suo racconto è quella di un'amica di famiglia delle sorelle Porro, un personaggio del tutto inventato...

«Sì, una signora borghese con il sogno di un mondo migliore. Una donna che vede intorno a sé diseguaglianze sociali e di genere drammatiche e prova a resistere, a reagire».

Lei scrive nell'introduzione al libro: «Solo un romanzo può ricostruire quanto la storia non tramanda attraverso i documenti». Nel caso delle sorelle Porro, che cosa resta, fuori dai documenti, che la scrittura narrativa invece riesce a cogliere?

«Ho cercato di evitare una visione manichea dei fatti. Da una parte ci sono le sorelle Porro, proprietarie terriere, rappresentanti di un sistema che getta i braccianti in una condizione subumana; dall'altra la violenza terribile contro due donne, sino al linciaggio. Tutto il male dalla parte delle Porro affamatrici? Tutto il male dalla parte dei contadini massacratori? Ciò che ho provato dire, e che forse solo un testo narrativo poteva dire, è che sia le Porro sia i braccianti sono, nella stessa misura, oppressori e oppressi. Le vittime appartenevano a una classe agraria gretta e meschina, inflessibile nel difendere i propri privilegi. Ma, osservate nell'intimità della loro vita privata, le sorelle Porro non appaiono affatto come dei mostri. Neanche sapevano bene ciò che accadeva attorno a loro. Erano quattro zitelle sempre chiuse in casa. Credo che mai si siano trovate di fronte un bracciante, né che abbiano visto mai alcuno dei bambini scrofolosi e pidocchiosi che affollavano le misere case dei contadini. Non erano né buone né cattive. Colpevoli forse, ma indirettamente. E gli affamati che le hanno massacrate hanno sì linciato due donne indifese, ma erano disperati, vedevano i figli morire di fame. Anche loro non erano né buoni né cattivi. Nel mio racconto è così: tutti i personaggi sono grigi, né bianchi né neri».

Che cosa unisce i personaggi del suo testo agli altri dei suoi libri?

«L'amica di famiglia delle sorelle Porro ha le stesse caratteristiche di tutti i personaggi femminili dei miei libri. E' un po' inetta. Lo dice varie volte, nel racconto, che non sa fare niente: è ricca, fanno tutto le domestiche. Spera in un mondo migliore e ha un'incrollabile fiducia nel genere umano. Va nelle baracche dei contadini per cercare i volti degli assassini ma non riesce a vederli, le sembrano tutti brava gente. Alle donne che racconto nei miei libri manca sempre qualcosa. Anche a quest'ultima: è sposata senza amore. Le mie sono donne piene di sogni, animate da un'indefinita speranza. Goffe, fuori posto».

È impressionante il quadro della Puglia nell’immediato dopoguerra...

«Dagli archivi Luciana ha tratto la cronaca di una guerra di cui i libri di storia non parlano, quella che si è combattuta in Puglia tra braccianti e agrari dal 1943 al 1948. Cinque anni di morti ammazzati».

«Il mondo è così com'è e non cambia mai davvero niente, si scambiano soltanto i ruoli», dice alla fine la voce narrante del suo racconto. Anche Milena Agus la pensa così?

«Nei momenti di rabbia anche a me capita di pensare che sia così. Però soltanto nei momenti di rabbia, quando magari vedo che un oppresso a sua volta diventa un feroce oppressore: scambio di ruoli dentro l'eterno orizzonte della lotta per il potere. La protagonista del mio racconto pronuncia la frase che lei ricorda quando deve prendere atto che tutti i suoi sforzi non sono serviti a niente. Sono cose che si pensano quando si è molto delusi. Ma non è davvero così. Credo che del mondo qualcosa si possa migliorare, cambiare. Almeno ci si deve provare».

E però Milena Agus si sente inadatta alla politica, no?

«In politica anche i migliori sono costretti a fare cose sbagliate. Per sconfiggere l'avversario spesso devono adattarsi a usare le sue stesse armi. E io, a quel punto, mi fermo. Perché non ce la faccio ad accettare la violenza, sia verbale sia effettiva. Non ce la faccio, e a quel punto mi fermo».

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