La Nuova Sardegna

Cherchi: «Le scelte devono partire dai piani di sviluppo»

Cherchi: «Le scelte devono partire dai piani di sviluppo»

«Il primo problema da risolvere è quello della produzione Fa bene Pigliaru a puntare su una serie di aree economiche»

14 aprile 2014
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CAGLIARI. «Il libro sulle zone franche, che ho scritto con Aldo Berlinguer, ha un sottotitolo: “Mito, preconcetti, opportunità e il caso Sardegna”. Questo perché la visione mitica della zona franca come soluzione di ogni problema dello sviluppo non è reale. E’ vero però che ci sono preconcetti e anche tante opportunità». Lo sostiene Tore Cherchi nell’intervista alla Nuova.

Nel mondo ci sono 3.500 zone franche, nessuna riguarda un’area grande come la Sardegna. Sarà bene chiarire che non esiste un solo modello e allora cosa serve per creare una buona zona franca?

«Cito quello che afferma la Banca Mondiale: “Non è la disponibilità di un’infrastruttura che fa la differenza. Occorre disporre di un progetto industriale”».

Si dice spesso che la zone franche siano strumenti superati. E’ almeno in parte vero?

«No, paradossalmente mentre cadono una serie di barriere del libero commercio, le zone franche crescono perché si riorganizza la rete di produzione di beni e servizi. Gli investimenti sono orientati verso le aree più forti d’Europa e le zone periferiche sono in sofferenza: lo strumento può essere utile per controbilanciare una serie di svantaggi strutturali».

Lei e Aldo Berlinguer avete ricostruito le vicende politiche e anche i casi migliori nell’applicazione della zona franca: l’Irlanda e le zone speciali della Polonia. Quali insegnamenti si possono ricavare?

«Il caso irlandese è interessante anche perché riguarda un Paese che da tempo fa parte dell’Ue e quindi è soggetto agli stessi regolamenti. Nel caso specifico loro avevano un progetto e l’hanno sviluppato; sono partiti da un modulo di appena tre ettari che hanno allargato per la localizzazione di imprese e servizi. Shannon parte nel 1959 e in Sardegna c’era già stata la discussione sullo Statuto, molto ideologicizzata. Fu raggiunto il compromesso dei punti franchi ma poi non si fece nulla».

Le Zone economiche speciali della Polonia sono forse un modello più esportabile in Sardegna?

«Quelle zone nascono alla metà degli anni Novanta e sono state prorogate sino al 2026. Costituiscono un punto di riferimento per le aree svantaggiate. Secondo la Svimez dovrebbero essere applicate in tutto il Sud Italia perché si stanno rivelando strumenti molto utili per attrarre investimenti».

Sul modo in cui è stato affrontato il tema nell’ultima legislatura, lei ha dato un giudizio durissimo: ha parlato di schizofrenia e di disastro giuridico. Perché?

«Mi riferivo al modo in cui la giunta uscente ha affrontato l’argomento, dicendo tutto e il contrario di tutto. Da un lato ha sostenuto che la Sardegna fosse già situata fuori dal limite doganale dell’Europa, poi ha lanciato la campagna di adesione dei Comuni alle sei zone franche previste dal decreto legislativo Prodi, poi un’altra legge dalla quale risultava che l’isola non fosse fuori dalla linea doganale. Ha fatto tutto meno l’unica cosa che doveva fare: elaborare un progetto per i punti già riconosciuti dal decreto Prodi...».

Il modello per la Sardegna è stato paragonato persino a quello di Livigno.

«Che è una zona al consumo quando il nostro problema è la produzione e il lavoro».

C’è un problema finanziario dietro la zona franca: da una parte si rinuncia alle compartecipazione dei tributi e con l’Iva, ad esempio, possiamo pagare la sanità. Dall’altra si deve puntare a un’espansione enorme della base produttiva per compensare il mancato gettito. Come si risolve?

«Su questo punto la giunta Cappellacci ha sorvolato. L’istituzione della zona franca, in partenza, ha un costo: non possiamo immaginare che ci priviamo delle risorse a un punto tale da compromettere il sistema di welfare. Un’altra cosa è considerare delle zone limitate per realizzare un progetto che non conta solo sui benefici della zona franca doganale ma anche di carattere fiscale e amministrativo in aree limitate. Neppure si può sostenere che la crescita dell’economia può controbilanciare la caduta che subirebbero le entrate».

La forma-Stato è entrata in crisi da tempo, eppure aumenta la richiesta di indipendenza e quindi di formare nuovi Stati. Come mai?

«Non c’è dubbio che sia in crisi ma ci sono caratteristiche differenziate. Credo che da una parte si vada verso l’acquisizione di sovranità ma ad esempio, in Italia, ci sono anche processi di ricentralizzazione verso lo Stato. La politica dell’Ue ha fatto sì che ci sia stata una forte delusione verso le istituzioni per due ragioni: il contenuto sociale delle politiche economiche spinge alla sperequazione sociale e i territori deboli di allontano da quelli più forti. La causa è l’aumento delle distanze in termini sociali tra i cittadini e poi tra i territori. Le politiche di coesione interessano solo lo 0,9% del Pil europeo».

Abbiamo un federalismo incompiuto e le regioni del Nord lo usano meglio con i Patti sottoscritti con lo Stato.

«Sì, però ci sono fatti nuovi. La Corte di giustizia europea ha sentenziato che un’autonomia regionale, se è in grado di decidere, in forza del suo regime, di far fronte con proprie risorse, può assumere decisioni di carattere fiscale anche diverse da quello dello Stato. Parlo della “sentenza Azzorre”. Il federalismo fiscale ha determinato spazi di manovra che riguardano i tributi propri e derivati (Irap e Irpef regionale) e le regioni speciali possono variare le aliquote. E’ accaduto che le regioni del Nord abbiano provveduto. La Sardegna dispone oggi di un insieme di strumenti che possono essere usati per un progetto di sviluppo».

Che messaggio può trarre la giunta Pigliaru dalla partita aperta per la zona franca?

«Il presidente Pigliaru ha inserito nel programma la necessità di istituire un certo numero di zone economiche speciali. E’ importante che dia seguito a questo impegno». (al.fr.)

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