La Nuova Sardegna

Dessanay fa l’americano, da Ellington agli indiani

di Walter Porcedda
Dessanay fa l’americano, da Ellington agli indiani

Esce “Songbook–volume One” del contrabbassista sardo che vive in Inghilterra. Nove composizioni nel segno della melodia, con un quartetto d’eccezione

30 marzo 2014
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CAGLIARI. Conteggio a ritroso per il contrabbassista Sebastiano Dessanay che dopo aver esordito un anno fa con “Songbook-Volume Two” propone finalmente il “Volume One”, cioè la prima parte di quell’ideale viaggio in due tappe nel cuore del jazz, intrapreso sin dal 1997 nei primi seminari jazz a Siena e Nuoro. Se nella prima proposta il musicista, residente da diversi anni in Inghilterra, a Birmingham, dove conduce studi avanzati nel campo della musica contemporanea – suonando allo stesso tempo con ensemble rinomati come Decibel, dell’irlandese Ed Bennet – proponeva una immersione negli umori e nelle atmosfere della musica europea, in questo “One”, cambia completamente di registro avventurandosi in America.

Sì, è alla grande culla della musica afroamericana che guarda infatti questo album, inciso per l’etichetta inglese F-ire dove il contrabbassista alla guida di una singolare formazione esplora con chiave melodica anche lo spirito originario del mainstream e del jazz contemporaneo.

Il disco suona con freschezza ed originalità d’approccio, e a onor del vero non si sente mai una nota fuori posto come la voglia di operare rifacimenti tout court di opere di celebri maestri.

Piuttosto c’è la passione di rileggere ed aggiornare con feeeling curioso, animato da vivace spirito di ricerca, la lezione della musica suonata nella Grande Mela soprattutto con un sentire aperto.

Dessanay, come già rilevato in occasione dell’uscita del precedente album “Two” ha talento compositivo ed è dotato di un ottimo livello di esecuzione. Una cavata possente quanto basta. Autorevole e presente, ma mai invadente, un fraseggio limpido, quasi trasparente, ideale per l’innesto dei soli e della musica eseguita di concerto con interessanti compagni di viaggio. A cominciare dall’altosassofonista Rachael Cohen, una voce malinconica venata di blues. Centrale la presenza del chitarrista Gianluca Corona, cresciuto alla scuola dei contemporanei, i vari Metheny, e Frisell soprattutto. Completa la formazione alla batteria il buon Alessandro Garau. Cohen e Corona, entrambi di spiccata inclinazione melodica danno il giusto supporto alla musica del leader che ha una cantabilità rigogliosa e accattivante. Sin dalla prima traccia, “Bouganville”, dall’incedere veloce con bel senso del ritmo guida immediatamente e introduce all’ascolto di un’opera a buon gradimento emotivo.

Nove composizioni nel segno della differenza, un ordito quanto mai vario che segnala spumeggianti swing come “Tuesday morning” accanto a oasi di riflessione intimistica, ved il poetico “Nuvole su Castello”. Naturalmente trovano posto i tributi alla lezione dei padri come “Duke and Monk” che chiude in un tripudio di lucido swing l’intero album.

E a proposito del grande Duca Ellington è all’elegante compositore e direttore d’orchestra che Dessanay ha sicuramente pensato nel comporre l’avvolgente “L’ultimo ballo”.

Discreto e altrettanto poetico l’omaggio ai nativi americani con rimandi alla musica suonata dalle tribù delle montagne Appalachi sono gli intriganti quanto austeri “Pianure”e “Intermezzo” affini per certi versi come segnale di vie originali al jazz a “Vow” nervoso crossover tra contemporary music e free.

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