La Nuova Sardegna

Ecco dopo quarant’anni il nome del vero scopritore

di Claudio Zoccheddu
Ecco dopo quarant’anni il nome del vero scopritore

Fu Battista Meli e non Sisinnio Poddi a trovare la prima testa di pietra

21 marzo 2014
4 MINUTI DI LETTURA





CABRAS. Una storia nella storia. Un racconto talmente incredibile che potrebbe tranquillamente aprire una commedia degli equivoci in perfetto stile shakespeariano. La vicenda del contadino cabrarese che, nel 1974, scoprì i guerrieri di Monte Prama è una storia imprecisa sin dalla prime righe. Un equivoco spunta fuori subito, quando il primo atto dell’ipotetica commedia è appena agli inizi. Il nome dello scopritore dei giganti di pietra, infatti, non è quello a cui viene attribuito il ritrovamento. Sulla carta d’identità dell’uomo che ha effettuato uno dei più clamorosi ritrovamenti dell’archeologia mediterranea ci sono le generalità di Battista Meli, contadino cabrarese classe 1947. Sisinnio Poddi, il collega di Meli a cui per quarant’anni è stato attribuito il ritrovamento, entra nella commedia di Monte Prama parecchi minuti dopo l’inizio. Battista aveva già ripulito dal fango la testa di pietra che s’era incastrata tra le lame del suo aratro quando dall’orizzonte era sbucata l’auto di Sisinnio.

D’altra parte, “Sisinni” era solito recarsi sui campi dell’amico per scambiare quattro chiacchiere e per ammazzare il tempo. La discussione di quel giorno, però, non era un dialogo di circostanza. Il breve discorso tra i due contadini avrebbe innescato una vicenda che dura da quarant’anni e che potrebbe aver cambiato la storia dell’archeologia nel Mediterraneo. Una possibilità che Battista e Sisinnio non potevano nemmeno immaginare quel giorno. La testa di pietra finì nelle mani dell’allora curatore dell’Antiquarium Arborense, lo studioso Peppetto Pau. D’altra parte, c’era bisogno di un reperto “leggibile” per poter attribuire un valore a quella che sembrava semplice pietra arenaria. Nonostante il Sinis fosse una zona archeologica già conclamata.

Nel 1974 Battista aveva 27 anni e coltivava, a mezzadria, un campo sulla collina di Monte Prama. Una zona della penisola del Sinis che si affaccia sul versante nordoccidentale dello stagno di Cabras, a pochi chilometri dalla spiaggia di Mari Ermi. Il lavoro era duro, come sempre in campagna, e il trattore di Battista arrancava su un campo tanto fertile quanto difficile da seminare. Le pietre erano troppe e saltavano fuori a ogni colpo di aratro: «Non davo nessuna importanza a quello che trovavo. Ammassavo tutto ai confini del terreno e poi seminavo» ha ricordato Battista durante il racconto dell’episodio fatto durante una conversazione caricata su Youtube dallo staff di Teleindipendentia.

«Per anni ho arato quelle terre e ho visto sparire le pietre che gettavo lungo il confine. Qualcuno se le portava via, ma io non mi ero reso conto di quello che stava succedendo, non ci badavo. Una persona che diceva di saperne sosteneva che sotto il mio terreno ci fosse un’antica discarica. Quindi, ero tranquillo. Per me erano solo scarti di lavorazione. Antichi, certo, ma sempre scarti».

Una svista nemmeno tanto clamorosa, per i tempi. Nel 1974 non era facile associare i blocchi di arenaria – quelli che non avevano sembianze antropomorfe – al mondo della scultura. Ufficialmente non lo faceva nessuno e anche gli studiosi dell’epoca erano protagonisti di equivoci da commedia: «Barreca diceva che i nuragici non scolpissero l’arenaria, Lilliu sosteneva il contrario», ha aggiunto Battista che evidentemente seguiva il dibattito tra i due illustri archeologi, seppure in disparte e alla sua maniera.

Quindi, la misteriosa scomparsa delle pietre era quasi una manna dal cielo. I cumuli ammassati di giorno sparivano di notte e andava bene così. Anche se, in realtà, il racconto che esplora uno dei capitoli mai scritti della commedia di Monte Prama, quello sulla scomparsa di centinaia di reperti trafugati dai tombaroli. Tra i tanti episodi all’epoca inspiegabili ce n’è uno che Battista ricorda meglio degli altri: «Una mattina sono stato rincorso da un capellone. Mi chiedeva, urlando, cosa avessi fatto. Non mi ero accordo di aver arato affianco a una lapide di pietra che aveva appena ripulito. Poi mi ha detto di essere della soprintendenza». I racconti sono tanti e spesso intrecciati tra loro. Tutti però convergono su uno stesso punto: il Sinis era il paradiso dei tombaroli. «Un posto prelibato», per dirla con Battista. Tanto che il via vai di tombaroli continuò anche dopo la scoperta. Il primo scavo fu aperto nel 1975, un anno dopo la prima segnalazione. Fu allora che iniziò a circolare una voce, rassicurante per i diretti interessati: «Ci avevano detto che ogni statua valeva 700 milioni a che allo scopritore sarebbe spettato il 10 per cento», racconta ancora Battista Meli. «Dopo un po’ di tempo avevamo dato diecimila lire a un avvocato per scrivere alla soprintendenza. Non ci hanno mai risposto». L’ultimo equivoco della storia, dunque, è in piedi da quarant’anni. Nel frattempo, i frammenti di arenaria intravisti da Battista e Sisinnio sono diventati venticinque di giganti di pietra e tredici modelli di nuraghe.

In Primo Piano
L’intervista

Giuseppe Mascia: «Cultura e dialogo con la città, riscriviamo il ruolo di Sassari»

di Giovanni Bua
Le nostre iniziative