La Nuova Sardegna

Fara: dalla crisi al declino ma ora possiamo cambiare

di Alfredo Franchini
Fara: dalla crisi al declino ma ora possiamo cambiare

«La giunta Pigliaru può portare a una nuova stagione di impegni e responsabilità Non si crescerà se non si considerano turismo e cultura come assi portanti»

12 marzo 2014
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CAGLIARI. Da trentadue anni, Gian Maria Fara analizza il Paese con gli strumenti più moderni della sociologia. L’intento dell’Eurispes, l’istituto di studi politici, economici e sociali fondato da Fara, è quello di fornire una guida a tutti gli elementi che compongono la società. Nell’ultimo Rapporto sul Paese, Fara mette accanto alle potenzialità inespresse la sub cultura del declino e della decadenza che pervade l’Italia. Il presidente dell’Eurispes spiega in un’intervista alla Nuova i possibili cambiamenti.

Fara, lei è di Tempio, iniziamo l’intervista dalla Sardegna: il Centrosinistra ha riconquistato la Regione con l’apporto determinante delle forze sovraniste, Rossomori e Partito dei sardi. La forma di Stato sembra in via di superamento e il rapporto Regione-governo è logorato. La Sardegna chiede maggiori spazi di autodeterminazione. Come giudica questo momento per la Sardegna?

«Potenzialmente favorevole. Si tratta di passare dalla mera gestione dello statu quo alla costruzione di un progetto di sviluppo che punti sugli asset e sulle potenzialità dei quali l’isola dispone».

Deve essere questa la sfida della nuova giunta regionale?

«Il cambio di governo regionale, affidato alla guida di una persona seria e competente come Pigliaru, deve coincidere con una nuova stagione di impegno e responsabilità. Un impegno che sappia farsi carico delle tante emergenze, dei tanti ritardi. Ma soprattutto che riesca a coniugare interessi e bisogni, perché è solo così che la politica può recuperare la credibilità perduta».

Il sistema economico, però, è da ricostruire. Parafrasando una teoria economica molto in voga stiamo vivendo una decrescita infelice?

«Nella presentazione del Rapporto Italia 2014 ho parlato di sub cultura del declino. Decrescita infelice, certo, perché c’è una sorta di nichilismo che sembra pervadere le istituzioni e le coscienze dei cittadini. L’Italia sta vivendo una crisi drammatica, si percepisce un rifiuto sdegnoso per ogni autorità e sembra prevalere un cinismo spinto al limite della sfrontatezza, allo scetticismo più radicale sulla possibilità di riformare e di modernizzare il sistema politico-istituzionale e quello produttivo».

Come dire: siamo incapaci di immaginare il nostro futuro?

«Sì, per superare questo momento sarebbe necessario, come proponeva Nietzsche, distinguere il “nichilismo passivo” come fattore di decadenza, dal “nichilismo attivo” come principio di vitalità e di capacità di reazione alla decadenza stessa. Piuttosto che alle sirene del declino dovremmo prestare attenzione ai messaggi e ai protagonisti del Paese che funziona e che in questi anni di crisi hanno tenuto in piedi l’Italia».

Su quali settori si deve puntare?

«Bisogna valorizzare gli asset che sono unici e irripetibili: cultura, manifattura, turismo e agricoltura sono i pilastri della nostra economia e, insieme, i fattori determinanti. Ma questo propone l’urgenza di elaborare un progetto, indicare una prospettiva di cambiamento percorribile e ragionevole».

I partiti tradizionali sono in crisi, sostituiti da quelli personali. E servono riforme nella società.

«Dal nostro Rapporto emerge che ormai la fiducia degli italiani verso la classe politica è ridotta al lumicino: appena il 6,5 per cento. Gli ultimi vent’anni sono stati caratterizzati da eccessivo personalismo, sia da destra che da sinistra, e questo non è stato un bene per la politica. La gente pretende un’inversione di rotta che, se non avverrà, potrebbe avere conseguenze disastrose. E’ necessario che la classe politica cambi non solo nella nomenklatura ma anche nel modo di gestire la cosa pubblica».

Siamo arrivati alle riforme: Renzi riuscirà a farle?

«Bisognerà capire quanto il nuovo governo avrà autonomia per lavorare. Il quadro politico apparentemente è in continua evoluzione: gli equilibri che si stanno stabilendo fra i diversi partiti e all’interno dei partiti stessi sono in una fase delicata. Vedremo nei prossimi mesi se il quadro politico cambierà e, soprattutto, se ciò avverrà verso il meglio».

Imprese e cittadini sono esausti di fronte all’arroganza della burocrazia. In molti casi dietro alla burocrazia ci sono Patti che furono sanciti tra potere politico e burocrati: come si spezza la catena?

«I cittadini sono stanchi dei mille ostacoli, dei mille ritardi, dei mille impedimenti che lo Stato pone a chi decide di avviare qualsiasi attività imprenditoriale, attraverso una pressione fiscale insopportabile, una burocrazia pervasiva e ossessionata dal regime del controllo e della concessione in luogo del diritto. Non andremo da nessuna parte se non sosterremo le nostre imprese manifatturiere, assicurando loro i servizi e il credito necessari a favorirne la proiezione internazionale, e se non le libereremo dai vincoli e dal peso di una burocrazia soffocante e di una tassazione opprimente».

Lei indica il turismo come una chiave per lo sviluppo?

«Non andremo da nessuna pare se non cominceremo a pensare al turismo come un asse portante dello sviluppo. Se non ammoderneremo e non metteremo in rete le nostre strutture ricettive e dispiegheremo a livello internazionale adeguate campagne di promozione e di marketing. Superando quindi la ridicola frammentazione che consente a regioni e città di sperperare risorse enormi per improbabili singole campagne di comunicazione o di aprire inutili sedi in giro per il mondo».

Stesso discorso per la cultura?

«Non andremo da nessuna pare se non capiremo che con la cultura “si mangia”, eccome. Il compito di spezzare questa catena è della politica. Servirebbero buonsenso e tanta buona volontà».

A maggio si voterà per il parlamento europeo. C’è il pericolo che avanzi un sentimento anti-euro?

«A dodici anni di distanza dall’introduzione della moneta unica il bilancio non può che considerarsi negativo: l’euro è diventato una vera e propria camicia di forza. Basti osservare gli effetti che ha prodotto sulla crescita economica dei paesi dell’Ue. L’Italia è stata sottoposta a uno stress insopportabile. Tutti gli indicatori registrano una forte sofferenza. Abbiamo preteso di realizzare un’unione valutaria tra economie diverse che tali sono rimaste. Per la prima volta nella storia si è tentato di affermare la possibilità di una moneta senza Stato».

Come rapportarsi con l’Europa?

«Se vogliamo stare in Europa dobbiamo starci da protagonisti e non da comparse e ciò dipende dalla nostra capacità di rispondere alle sfide internazionali».

Dalla recessione si esce fuori solo con l’aiuto della mano pubblica. Come favorire gli investimenti?

«I nostri mali vengono da lontano, sottovalutati dalla classe dirigente che non si è accorta di quanto, anche con la crisi, di positivo e di creativo andava maturando in diversi settori dell’economia, della società civile, della cultura e addirittura della politica».

A cosa si riferisce?

«Ai settori tradizionali del made in Italy: tessile-abbigliamento, calzature, arredamento e nautica. Siamo riusciti a creare nuove specializzazioni come nella meccanica; nei prodotti a forte innovazione, nelle tecnologie per l’edilizia e nella chimica farmaceutica».

Lei sostiene che alla crisi si può rispondere con la creatività. In che modo?

«Condivido il documento di Giuseppe Bianchi, presidente dell’Isril, nel quale si afferma: “E’ davvero ardito parlare di un Paese sul viale del tramonto. Non siamo una nazione di macerie e di cittadini rassegnati”. Abbiamo resistito alla crisi grazie alla creatività e alla voglia di non mollare dei piccoli imprenditori. Sono il patrimonio artistico, culturale e paesaggistico i fattori su cui dobbiamo puntare».

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