La Nuova Sardegna

Novecento, l’eclisse del soggetto

di MASSIMO ONOFRI
Novecento, l’eclisse del soggetto

La radicale decostruzione dell’Io in ottanta opere provenienti dalla collezione del Centre Pompidou

13 gennaio 2014
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di MASSIMO ONOFRI

In un romanzo poco celebrato di Corrado Alvaro, “L’uomo è forte” (1938) – che accampa, invece, una notevole distopia, assolutamente insolita nel nostro panorama letterario –, abbiamo a che fare con un Paese appena uscito da una guerra civile e retto da un governo totalitario. Quindici anni dopo, Dale, il protagonista cresciuto all’estero e lì ancora residente, si trova a visitare, all’«Esposizione internazionale» del luogo in cui vive, il padiglione dedicato alla sua patria: «Gli fece molta impressione una scultura che rappresentava una coppia, uomo e donna, alta otto metri, di gesso, che avanzava con passo forte guardando sicura davanti a sé».

Coppia di gesso. E poco più avanti: «La coppia di gesso, che avanzava stringendosi la mano, faceva anche paura. Essa simboleggiava la nuova umanità nata da una sanguinosa rivoluzione». Alvaro, in questo libro pensato probabilmente durante un suo viaggio in Unione Sovietica fatto per La Stampa (ma scritto nel sentimento cupo e compresso dell’Italia fascista), comprendeva assai bene, e molto in anticipo sugli stessi storici dell’arte, il significato di quel gigantismo monumentale che agitava, in quegli anni, l’arte celebrativa di regime: e che valeva come compensazione puerile all’angoscia di vivere in società massificate, composte da individui anonimi, per la prima volta senza volto.

Già, il volto: e il ritratto che, da sempre, si prova a salvarlo, il volto, dalla violenza del tempo. Ecco: si dovrebbe partire da qui, da questa semplice considerazione storico-antropologica sui totalitarismi e le democrazie di massa, per capire meglio ciò che l’arte novecentesca, in merito alla questione del volto e del ritratto – ormai contraddette le regole della fisiognomica imposta alle origini della modernità da Van Eyck – andava elaborando, nei suoi artisti di punta, in risposta a quella che si profilava come una perdita secca, in termini non solo di aura, ma soprattutto di identità, di crisi radicale del soggetto, già anticipata, del resto, dalla rivoluzione non solo epistemologica di Nietzsche e Freud.

Misteri dell’anima. Ce ne offre occasione la mostra Il volto del ‘900, organizzata al piano nobile del Palazzo Reale di Milano, ancora visitabile fino al 9 febbraio e che presenta, da Matisse a Bacon, circa ottanta opere provenienti dalla collezione del Centre Pompidou di Parigi. Va aggiunto per inciso che, al di là della qualità dei singoli capolavori (molti e importanti), la mostra, che consiste, sic et simpliciter, nella proposizione dei quadri parigini, organizzati però secondo un percorso nemmeno troppo congruo e assai rapsodico (dall’iniziale sezione, quasi tutta al femminile, “I misteri dell’anima” alle finali, e persino ovvie, “Dopo la fotografia” e “Disintegrazione del soggetto”, passando, tra le altre, per una scontatissima “Volti in sogno. Surrealismo”), non presenta nessuna particolare proposta critica, mentre il catalogo, pubblicato da Skira, include due velocissimi saggi del curatore Jean-Michel Bouhours (“La profondità del volto”) e di Flaminio Gualdoni (“Il Novecento e le ragioni del ritratto”), oltre naturalmente le schede delle opere e rapide bibliografie degli artisti. Registrava perfettamente una condizione condivisa da tutti i movimenti d’avanguardia, Henri Matisse (qui rappresentato anche da uno splendido “Nudo seduto su sfondo rosso” del 1925), quando affermava perentoriamente in sprezzo a ogni antropocentrismo: «Io non faccio un ritratto, io faccio un dipinto». Cui rispondeva Alberto Giacometti (in mostra coi bellissimi “Diego” del 1954 e “Asaku Yanaihara” del 1956), secondo quanto riportato da Jean Clair nel 2008: «Più siamo noi stessi, più diventiamo chiunque».

L’uomo nuovo. Mi chiedo, allora, se avesse avuto ragione Renato Guttuso, parimenti nemico di un’idea tanto documentaria che simbolica di realtà, quando, nel 1960, scriveva: «Chi oggi si richiami con coraggio a una pittura figurativa di ispirazione realista, tende a ricostruire l’integrità dell’uomo. Coloro che cercano la realtà e non sono figurativi, ci dicono che l’uomo è dilaniato, che la realtà è a pezzi. Ma l’uomo non è a pezzi, perché le grandi lotte attraverso le quali la società cerca il suo nuovo assestamento costituiscono una poderosa spinta verso una nuova unità umana». L’uomo nuovo, integralmente umano e liberato, emancipato dallo sfruttamento di classe, vagheggiato da Guttuso, era nato già morto, come aveva visto bene Alvaro nel 1938. Mentre restano, sul versante del negativo, dentro l’imbuto nichilista, molte straordinarie testimonianze dell’uomo appunto fatto «a pezzi», scomposto, cosificato, che, in questa mostra, corrispondono, per citarne solo alcune, al Costantin Brancusi di “La musa addormentata” (1910), al Gino Severini di “Autoritratto” (1912/1960), al Joan Mirò di “Testa maschile” (1935), al Pablo Picasso di “Donna con cappello” (1935), al Max Ernst di “L’imbecille” (1961).

Lo stupro. Senza dire del famosissimo quadro di René Magritte del 1945, che presta la copertina al catalogo diventando il logo della mostra, “Le viol” (Lo stupro), in cui, sotto lunghe e bionde chiome, a disegnare il volto sono, per gli occhi due mammelle, per il naso un ombelico, per la bocca e il mento il triangolo inguinale: che è poi un conclamare all’esterno, in chiara evidenza, i conflitti della psiche e i torbidi del desiderio. Sono, però, gli straordinari quadri di Bacon (“Autoritratto” del 1971 e “Ritratto di Michel Leiris” del 1976) e lo spettrale “Autoritratto”(1988) in grigionero di Zoran Anton Music, a trascinare l’uomo del Novecento, ormai sconciato e totalmente decostruito, sino al termine della sua notte. Di nuove umanistiche albe non s’intravede ancora nemmeno il più pallido chiarore.

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