La Nuova Sardegna

Declino dell’isola sicuro se non sappiamo immaginare il futuro

di Sante Maurizi
Declino dell’isola sicuro se non sappiamo immaginare il futuro

Ho avuto il privilegio di frequentare per qualche giorno Cesare Garboli, che è limitativo dire sia stato il più grande critico letterario del secondo Novecento. Parlammo del "Giorno del giudizio" di...

07 gennaio 2014
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Ho avuto il privilegio di frequentare per qualche giorno Cesare Garboli, che è limitativo dire sia stato il più grande critico letterario del secondo Novecento. Parlammo del "Giorno del giudizio" di Salvatore Satta, che lui amava. Riflettendo sulla famiglia dei Sanna-Carboni come paradigma di un mondo, Garboli fece una sintesi insuperabile: «Che gente senza alcuna immaginazione! ». La fatica di sentire ancora parole come identità, specificità e simili, andrebbe rapportata a quella constatazione: il filisteismo dei Sanna-Carboni (la famiglia al centro del romanzo)come misura del nostro. Un deficit di immaginazione che viene il sospetto derivi dal troppo-pieno dell'immagine di noi stessi che amiamo raccontarci (l'ultimo elenco provvisorio è "La Sardegna non è" di Alberto Mario Delogu su sardinians-sassari.blogautore.repubblica.it)

Ambiente fragile. Se andate in giro per l'isola a chiedere di definire in una parola il paesaggio della Sardegna, vi diranno che è bello, selvaggio, naturale, solitario, silenzioso. Nessuno vi dirà che è in pericolo, a rischio, fragile, delicato. Eppure dovrebbe essere chiaro che le crisi politiche e le alleanze si fanno da decenni sul mattone al mare e in campagna. Che il tappeto sotto il quale abbiamo nascosto l'abusivismo edilizio è ormai troppo sfrangiato. Che continuiamo a sottovalutare i veleni delle zone industriali, minerarie e militari. Che è in atto anche in Sardegna l'accaparramento della terra, soprattutto per lo sfruttamento a fini energetici. Che almeno i morti del 18 novembre, prima ancora quelli di Villagrande e Capoterra, dovrebbero modificare la percezione della Sardegna come terra arsa, dove non piove mai. Proprio la vicenda della recente alluvione dovrebbe insegnarci che se è rassicurante sentirsi innocenti sulle cause dei cambiamenti climatici (le emissioni di CO2: colpa d'altri, da un’altra parte, io non c'entro) sui loro effetti è in gioco il nostro futuro. La loro percezione costringe a un'assunzione di responsabilità: i cambiamenti climatici impongono il cambiamento. Al quale siamo tutti resistenti, non solo lo speculatore edilizio o chi vuole abbattere il Piano paesaggistico regionale.

Democrazia web. Pure sono in giro per l'isola esempi "laboratoriali" che vale la pena di seguire. Uno di questi è su www.sardegnasecondote.it, il sito di e-Democracy della Regione Sardegna: «Partecipazione consapevole e attiva dei cittadini ai processi decisionali, di consultazione e di indirizzo. Un metodo semplice, diretto e immediato per dare la parola a ciascuno di Voi». Tratte dai metodi di composizione dei conflitti, tali procedure devono obbligatoriamente far parte dei percorsi di definizione progettuale e di formalizzazione della spesa pubblica. La mistificazione, nel nostro caso, non va letta nella striminzita adesione dei cittadini (486 hanno firmato la petizione per la zona franca, 432 per la "flotta sarda") ma nella sostanza del processo top-down, che accomuna destra e sinistra nell'intendere la politica come marketing del consenso.

Vince il marketing. Qualunque amministrazione è da qualche tempo alle prese con una propria strategia:di sviluppo, di riconversione, di identità territoriale, di coinvolgimento degli attori sociali. Grande attenzione alla comunicazione, attuata spesso con dispendiose campagne pubblicitarie, e al tenere accuratamente fuori campo la valutazione in corso del processo, o le reali modalità di partecipazione. Il messaggio è: «Stiamo lavorando per voi» (corollario: «Non disturbate i manovratori»).

Ci sono altri modi di intendere la partecipazione. Non è insolito, di questi tempi, che una sala parrocchiale si riempia per discutere di consumo del suolo e sostenibilità. È successo qualche giorno fa ad Arborea, in occasione dell'assemblea annuale del comitato per il no al progetto Eleonora, il piano di trivellazioni della Saras alla ricerca di metano. Non è qui importante definire i contenuti della questione, quanto individuare i caratteri di un processo. Un paio di mesi fa, in occasione dell'ottantacinquesimo "compleanno" di Arborea organizzato dallo stesso comitato con tutte le locali realtà imprenditoriali e istituzionali, ne vennero ben fotografate le origini: il capitale sociale come vero patrimonio del distretto agricolo, l'innovazione come caratteristica costante degli investimenti nei decenni passati.

Territori virtuosi. In quello schema il luogo comune dell'enclave arborense, anche la critica mossa dalle comunità vicine di essere un sistema chiuso, indicava soprattutto delle virtù. Ma fra volatilità dei mercati, aumento dei costi delle materie prime, fine delle "quote latte" e mutamenti climatici, anche Arborea deve mettersi in gioco. «Dobbiamo andare oltre il canale» (quello che delimita a est il territorio della bonifica) è la frase che meglio esprime tale consapevolezza. E coerentemente con la propria storia, gli arborensi sanno che la disponibilità al cambiamento è un percorso di apprendimento collettivo: per varcare il canale non è sufficiente ricordare con gratitudine i pionieri di quattro generazioni fa, o esprimere la propria cittadinanza con il voto ogni cinque anni. Percorso faticosissimo e senza approdo definitivo, come sa bene chiunque gestisca in modo non mistificatorio meccanismi di inclusione e di condivisione.

Percorsi nuovi. Se raccontate questo esempi. o in giro per la Sardegna è possibile vi dicano: «Facile per loro: mica sono sardi». E nella convenzionalità della battuta sta un fondo di verità. Stentiamo a condividere percorsi. Di più: non abbiamo immagine. Quando la foto di un proprio caro defunto veniva poggiata sulla mensola del camino con a fianco i lumini accesi, diventava un'"immagine". "S'immagine" è il morto: s'immagine 'e mama, s'immagine 'e babbu, s'immagine 'e giaju. È l'unico significato che ha in sardo la parola immagine. Posta nel punto più visibile della casa, s'immagine rappresentava non solo la memoria, ma un contatto attivo con il defunto, nel presente e nel futuro: un auspicio di protezione, esattamente come accadeva per i Lari degli antichi romani.

Rischi e opportunità. Non è detto che se l'unica immagine che abbiamo di noi stessi è quella del morto, di qualcosa che è alle nostre spalle, ci sia oggi precluso l'immaginario, qualcosa che sta davanti a noi (chiamateli, se preferite, scenari intorno ai quali concertare le scelte). Perché ci vuole immaginazione per percepire il mondo, i luoghi e se stessi. Per intuire rischi e opportunità. Ci vuole immaginazione per provare a dire qualche verità: ha molto più a che fare con l'identità la definizione del Piano di sviluppo rurale 2014-2020 di qualunque dibattito o progetto sulla lingua e la cultura sarda. Perché è vero che è impossibile progettarsi senza guardarsi allo specchio, ma nel mondo grande e terribile vince chi mette in moto il proprio immaginario, qualunque immagine abbia di sé.

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