La Nuova Sardegna

Il commissario Montalbano in “Un covo di vipere”

di Alessandro Cadoni
Il commissario Montalbano in “Un covo di vipere”

Nuova avventura del personaggio inventato dallo scrittore siciliano Rancore, gelosia, tradimenti: i segreti impenetrabili di una famiglia

15 luglio 2013
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È verso la fine di “Un covo di vipere” (Sellerio, 261 pp., 14 euro) che Camilleri dà corpo a una sensazione sino a quel punto spersa in una nebbia intermittente. Giovanna Barletta, sorella di Arturo e figlia di Cosimo, sente finalmente su di sé il peso d’una “tragedia greca” piombata sulla sua famiglia. Cosimo, dongiovanni strozzino e ricattatore, viene trovato morto, assassinato in maniera tutt’affatto misteriosa. Ucciso verso le sei del mattino da un veleno paralizzante, l’uomo è stato poi colpito, sulle otto, da una pistolettata alla nuca. Strana specie d’omicidio, commesso da due assassini diversi, uno all’insaputa dell’altro.

Come inizio d’indagine, non c’è male, se non altro perché alla patente anomalia dell’eccesso di colpevoli s’accompagna un difetto altrettanto evidente di potenziali prove: un turbine di lettere delle amanti del morto, un pugno di sospetti tra le vittime dell’aguzzino e, soprattutto, un testamento, più volte sollevato da possibili testimoni e però, forse, mai scritto. Blocchi scivolosi, insomma, questi da cui parte l’inchiesta. Ma se c’è una cosa che il Montalbano sa, ama, fare, quella è leggere. Se la filologia, s’è capito, non gli fornisce un esauriente paradigma indiziario, sarà allora l’immaginazione – connessa al sogno – a svelare i raccordi fra le tracce. Si servirà, insomma, d’una particolarissima “filologia congetturale” (così Nigro nell’ala di copertina). Simili accenti di barocchismo non son certo una novità per Camilleri, che tra l’altro si diletta a far rifrangere il dramma moderno su quello antico, non rinunciando a mescolare i toni dell’azione. Dalla tragedia si passa, come spesso accade in Camilleri, all’opera di pupi, per poi tornare, e prepotentemente, al tragico, lavorato su morte ed eros e imbastito col “carico da unnici” d’una climax impetuosa: quella del dramma d’un amore «dispirato, contro natura, ‘ncestuoso, trimenno…». Ciò che di questa tragedia colpisce a fondo è il fatto che Montalbano, tutt’altro che protagonista, ne è anonimo testimone, forse corifeo. A lungo non la vuole vedere, né accettare o capire. Alla fine, quando gli si presenta nitida e oggettiva, prende forma attraverso le parole di un personaggio misterioso, il classico ànghelos: un vagabondo che si rifugia in una grotta a monte della sua casa di Marinella. Un uomo solitario che nasconde un segreto – di qui l’inguaribile curiosità di Livia – e che, come un demone misterioso, assiste Montalbano in questa indagine, riavvicinandolo pure, inaspettatamente, a Livia stessa. E, per inciso, quella del rapporto tra lei e Salvo, apparentemente burrascoso come al solito, è, nel romanzo, una sottotraccia densa di dramma e di cui molto altro si potrebbe dire.

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