La Nuova Sardegna

Mesina, un uomo prigioniero di una falsa leggenda. Giornali e tv lo fecero diventare un simbolo quasi romantico

di Piero Mannironi
Mesina, un uomo prigioniero di una falsa leggenda. Giornali e tv lo fecero diventare un simbolo quasi romantico

Ma il banditismo sociale non esisteva. E lui da quella gabbia non è mai uscito. La madre del bandito: «Pregavo che si costituisse: preferivo saperlo in carcere, ma vivo, piuttosto che in camposanto»

11 giugno 2013
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Tzia Caterina Pinna l'aveva sempre saputo che quel figlio dagli occhi che ardevano di un'incontenibile furia ribelle l'avrebbe costretta a percorrere un sentiero di paura e di dolore. E sapeva che difficilmente Grazianeddu sarebbe sfuggito al suo destino. Ma lei, madre e donna che vedeva e capiva le ombre e i demoni del suo paese, cercò di salvare quel figlio allontanandolo da Orgosolo dopo che, ad appena 16 anni, l'avevano sorpreso con un fucile. Pensava, sperava, che mandandolo a Ozieri a fare il servo pastore, lo avrebbe allontanato da quei demoni che lo stavano contaminando. Forse, pensava, in un altro ambiente si sarebbe stemperata quella furente sensazione di onnipotenza giovanile che lo faceva già sentire un "balente". Ma fu tutto inutile. Perché quei demoni Grazianeddu se li portava dentro. Non era l'ambiente che poteva condizionarlo. L’ambiente era lui.

Le parole di Tzia Caterina. Tzia Caterina seguì così il suo destino di madre del bandito. Pianse in silenzio la morte violenta dei suoi figli Giovanni, detto "Dannargiu", e Nicola, e nel suo cuore sperò sempre che Graziano finisse in una cella. Nell'aprile del 1985, infatti, rompendo il suo silenzio duro come la pietra, disse dopo l'ennesima evasione del figlio: «Graziano devi costituirti. Subito. Una libertà ottenuta in questo modo non è una vera libertà. Così metti in pericolo la tua vita e la nostra serenità". E concluse con tristezza: "Preferisco saperlo vivo, anche se in cella, piuttosto che in camposanto».

Ma la verità è che Graziano Mesina, era finito da tempo dietro a delle sbarre dalle quali non si sarebbe mai liberato. L'aveva capito benissimo Antonio Serra, il poliziotto implacabile cacciatore di banditi. Uomo acuto e profondo conoscitore dell'oscuro universo barbaricino, Serra una volta disse: «I giornali e le tv hanno costruito negli anni Sessanta il mito di Mesina. Ne hanno fatto quasi un eroe romantico, un ribelle che istintivamente combatte contro un sistema ingiusto. Il guaio per Mesina è che alla fine anche lui ha finito per crederci e quel ruolo è diventato la sua prigione. Una prigione dalla quale neppure lui, il re delle evasioni, riuscirà mai a scappare».

Serra aveva ragione. Forse infatti neppure Mesina riusciva più a distinguere la differenza tra quello che lui era davvero e il personaggio che era stato costruito dalla pubblicistica che, in anni confusi di sogni di cambiamento, aveva bisogno di storie da raccontare e di personaggi da creare. E così, come ha detto lo scrittore orunese Bachisio Zizi, mentre i sardi «sono qui a interrogare penosamente l'ieri per capire l'oggi, incapaci di guardare al domani», il cuore di tenebra della Barbagia veniva raccontato con toni lievi da rotocalco. Il giornalismo “derapava” dal percorso ortodosso del racconto dei fatti, precipitando in una improbabile revisione quasi romantica di vicend. e tragiche.

Il fuorilegge mediatico. Per questo Grazianeddu era diventato il primo bandito mediatico, il simbolo di una malintesa riscossa sociale della Sardegna profonda. Si assistette così a un grottesco ribaltamento della realtà, a un assurdo e diffuso atteggiamento sociale: il fuorilegge veniva visto con benevolenza, quasi con simpatia, mentre svaniva nella percezione collettiva il senso intimo e vero della violenza, la tragedia dei sequestrati, il loro terrore e la loro umiliazione.

«Non ho mai torto un capello a un ostaggio» si è sempre vantato Mesina, quasi a confermare la sua immagine di bandito-gentiluomo. E questo è vero. Nel racconto dei rapiti non c'è infatti traccia di inutili violenze. Come è forse vero che in Mesina non c'è mai stata l'indole dell'assassino. «Ho ucciso solo una volta - ha raccontato - e l'ho fatto per vendicare mio fratello». Insomma, lui aveva rispettato una regola feroce prevista nel sistema giuridico consuetudinario barbaricino. Perciò, nella sua coscienza, sentiva di aver adempiuto quasi a un obbligo.

Ma ciò che è davvero sconcertante, nell'avventura di Graziano Mesina, è la rimozione collettiva che si è fatta per molto tempo della censura morale per i suoi reati. Si sfuggiva cioè al paradigma criminale secondo il quale “io ti rubo la libertà e per restituirtela ti chiedo in cambio dei soldi”. Nella volgarità del ricatto, si sa, non c'è alcuna nobiltà, ma solo sopraffazione. E il riconoscimento di questa elementare verità avrebbe messo in crisi le fragili fondamenta della leggenda, il mito che si alimenta nel paradosso che si crede solo in ciò che si vuole credere.

La grande bugia. Sfuggiva la percezione della vera Sardegna interna. Terra di sofferenza, di morte e di inganni. Terra che si portava dentro una lunga storia di tormenti. Storia cupa. La Barbagia scontava drammaticamente il suo castigo, la punizione per essere se stessa. Perfino grandi giornalisti come Guido Vergani non riuscirono ad arrivare alla sostanza vera della realtà, sedotti da quel clima misterioso che non riuscivano a comprendere e abbagliati dal personaggio ribelle e ribaldo. Ecco come descrisse Mesina e il suo ambiente: «Le sue radici sono identiche a quelle di Antonio Casula: “balentia”, omicidio per vendetta, giustizia barbaricina. L’ambiente che li ha generati è uguale per entrambi: una tribù segregata con le sue leggi di sopravvivenza e un costume che non si ammorbidisce e non si evolve perché le frustrazioni sociali aumentano».

Perfino il grande Indro Montanelli si fece stregare dal “bandito che osava sfidare lo Stato”, arrivando a codificarne la “diversità”. Proprio lui, che, diversamente dagli altri cronisti, aveva vissuto nella lontana Barbagia gli anni della gioventù: «Sulle montagne ora imperversano i criminali, nemmeno lontani parenti dei banditi d’antan. E sono convinto che lui (Mesina ndr), l’ultimo lupo solitario, li disprezza. Anche se non me lo dirà mai. Il fatto è che ha sbagliato secolo. È l’ultimo reperto vivente di un mondo che non c’è più. Se potessi, lo metterei sotto vetro. Come una reliquia».

Il coperchio di tutte le pentole. Poi, è anche vero che la spregiudicatezza dei sistemi di alcuni uomini dello Stato ha in qualche modo alimentato molti alibi sociali. Per esempio, quando venne attribuito a Mesina l'omicidio dell’imprenditore Gianni Piacciau, a Cagliari, nell’agosto del 1967. La maldestra versione ufficiale sostenuta dal capo della Criminalpol sarda, Salvatore Guarino, era che si trattava di un tentato sequestro di persona finito nel sangue. E che l'assassino era Graziano Mesina. Ma proprio quel giorno, a quell'ora, Mesina aveva circa 200 testimoni che potevano provare la sua innocenza: fuggiva infatti, saltando sui tetti di Orgosolo, all'accerchiamento di duecento baschi blu, cioè i celerini inviati in Sardegna per stanare i latitanti.

In seguito si disse che, proprio riferendosi a quella vicenda, Mesina avrebbe coniato la famosa frase che un latitante è un coperchio buono per tutte le pentole. Ovvero, che essendo il latitante un uomo senza alibi, gli si può attribuire tutto. La verità è però che quelle parole non le disse Grazianeddu, ma un altro bandito di quegli anni: Peppino Campana di Orune, detto "Rubino". Campana era un fuorilegge molto diverso da Mesina: alla notorietà preferiva l'invisibilità, alle guasconate e alle dichiarazioni beffarde di Mesina lui contrapponeva il silenzio e il culto maniacale della segretezza. "Rubino" ruppe la sua proverbiale riservatezza solo quando nel mondo investigativo qualcuno cominciò a sospettarlo del sequestro di Maria Assunta Gardu Calamida, avvenuto nelle campagne di Oliena il 29 settembre del 1970. Il bandito inviò ambasciatori molto discreti alla signora Gardu Calamida per farle sapere di non essere assolutamente coinvolto nel rapimento. E proprio in quella circostanza fece dire a uno dei suoi emissari la famosa frase: "Un latitante è un coperchio buono per tutte le pentole".

Con Turatello e il Tebano. Poi c’è un Mesina poco conosciuto: quello che frequentava i locali notturni e le bische della “Milano da bere” insieme a Francis Turatello e Angelo Epaminonda il “Tebano”, o quello che incontrava l’ufficiale dei servizi segreti Massimo Pugliese al quale smentiva i suoi legami con Giangiacomo Feltrinelli, l’editore rivoluzionario che sognava Grazianeddu come un Che Guevara in una Sardegna Cuba del Mediterraneo.

Ora Mesina, a 71 anni, torna in galera. Tzia Caterina lo sapeva: quel suo figlio non sarebbe mai sfuggito al suo destino.

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