La Nuova Sardegna

Malato per colpa dell'uranio impoverito, militare vende la casa per curarsi

Malato per colpa dell'uranio impoverito, militare vende la casa per curarsi

Appello su Facebook per aiutare il maresciallo dei granatieri di Sardegna, Marco Diana, malato di cancro da 15 anni. Che il "suo" tumore sia legato alle sue missioni è fuori da ogni dubbio. Nel 92-92 partecipò all’operazione Restore Hope, in Somalia, dove gli americani usarono proiettili radioattivi

05 giugno 2013
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VILLAMASSARGIA. Dalle missioni nella assolata Somalia e nei Balcani sconvolti dall’odio etnico il maresciallo Marco Diana è tornato con un male che gli corrodeva la carne. Un cancro terribile che però non è riuscito a vincere la tempra del sottufficiale dei granatieri di Sardegna. Marco Diana è così diventato il simbolo di quell’umanità sofferente in divisa che paga un conto troppo alto non tanto al proprio destino di soldato, ma per la responsabilità di chi l’ha esposta all’uranio impoverito e ad altri micidiali cocktail chimici.

Marco Diana vive da 15 anni sospeso tra la vita e la notte della morte. Lo sostengono nella sua battaglia le terapie che vengono testate su di lui e certificate dall'Istituto Europeo dei tumori diretto da Umberto Veronesi. Ma il granatiere di Sardegna ha un secondo fronte sul quale combattere. Ed è quello contro una burocrazia ottusa e senz’anima, contro l’insensibilità di strutture che non percepiscono il doloroso senso della sua tragedia di uomo.

Così, periodicamente, il suo protocollo terapeutico si inceppa. E lui è costretto all’odiosa umiliazione di chiedere aiuto, di chiedere giustizia. L’ultimo episodio è proprio dei giorni scorsi: nella sua pagina Facebook Diana ha infatti annunciato che sarà costretto a vendere la sua casa e il suo oliveto per poter pagare le medicine che lo tengono in vita.

Nell’agosto del 2008 provocarono enorme impressione le sue parole disperate: «Se il governo non mi darà quello che mi ha promesso quattro anni fa, mi incatenerò all’Altare della Patria e morirò davanti a tutti».

Ma la situazione si ripete periodicamente: qualcosa nell’assistenza, nel rimborso di farmaci costosissimi, va in corto circuito e Marco Diana è costretto a lanciare i suoi appelli per non morire. E che il tumore che si porta dentro sia legato alle sue missioni è fuori da ogni dubbio. Quando partecipò all’operazione Restore Hope, in Somalia,nel 1992-1993, gli americani usarono una grossa quantità di proiettili all’uranio impoverito.

«I missili sparati dai loro elicotteri - raccontò Diana - sollevavano enormi nuvole di polvere bianca. Quella polvere ci avvolgeva e noi la respiravamo. E ridevamo degli americani che poi scendevano sul campo avviluppati in tute che li facevano sembrare dei marziani. Ridevamo e non sapevamo che stavamo respirando un veleno che ci uccideva». (p.m.)

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