La Nuova Sardegna

Quel dolce kitsch, perché amiamo la musica leggera

di Costantino Cossu
Quel dolce kitsch, perché amiamo la musica leggera

A Sassari la presentazione del nuovo libro di Luigi Manconi, dalla parrocchia di San Giuseppe al rock

23 maggio 2012
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di Costantino Cossu

La musica è leggera, ma mica tanto. Attraverso le canzonette è possibile leggere la storia di un’epoca. E poi, non era forse François Truffaut, regista iper autoriale, guru della nouvelle vague, che diceva che una canzonetta spesso spiega la vita meglio di un grande romanzo? “La musica è leggera” (Il Saggiatore, 505 pagine, 16 euro) è il nuovo libro che Luigi Manconi ha scritto con Valentina Brinis. Un libro in cui c’è la passione di sempre dell’autore per le canzonette e ci sono molta Sassari e molta Sardegna.

Lei nella vita ha fatto altro: sociologia e politica. Perché la musica leggera?

«Perché, come si dice, mi è venuta così. Una volta si chiamava "il bernoccolo" o qualcosa del genere. Ma non parlerei proprio di vocazione, termine da destinare alla definizione di ben altre inclinazioni o missioni. Nel mio caso, è stato ed è un insieme bruciante di passione e tic, culto e fissazione, amore e mania. Da quand'ero poco più che bambino e, davanti allo specchio di casa mia, in Piazza d'Armi, imitavo Gino Paoli e Adriano Celentano inventando canzoncine alla loro maniera. Poi quella passione infantile si è caricata di tanto ascolto e tanta lettura, di tanti dischi, concerti e conversazioni. E di ciò che nel libro chiamo sentimental kitsch».

Sentimental kitsch?

«Sì, è quel cattivo gusto romantico al quale è difficile rinunciare e che la musica leggera esprime magnificamente. In altre parole, c'è in noi un lato debole, una dimensione fragile, "tenera e violenta" (come direbbe Jacques Prévert), che ha origine nell'infanzia e che ricorre a un vocabolario puerile e a sentimenti elementari, impudichi e sfacciati. È il nostro linguaggio domestico, intimo e primitivo, che ci piace coltivare – come in una tasca segreta – anche nell'età adulta. L'ho scoperto leggendo gli epistolari amorosi dei grandi scrittori, che, rivolgendosi alle donne amate, ricorrevano a un linguaggio appunto infantile e intenerito, talvolta dolciastro. Per tornare alla musica leggera: se diciamo in pubblico "Buona notte, buona notte fiorellino./Buona notte tra il telefono e il cielo" ci viene da ridere, se lo canta Francesco De Gregori sorridiamo compiaciuti; e pensiamo, magari, di sussurrarlo alla persona che amiamo. Ma il sentimental kitsch si esprime anche attraverso altre forme di adolescenza prolungata: nella passione cieca per l'eroismo sportivo così come nella dipendenza dai videogiochi o nel collezionismo più tenace e disparato. E tuttavia la musica leggera, di quel sentimental kitsch è l'espressione più felice e innocua».

"La musica è leggera", il libro, è un racconto. Un racconto di incontri fatto in prima persona. I motivi di questa scelta?

«Il mio è anche un piccolo esperimento, non progettato, ma da un certo momento in poi perseguito: parlare del mio vissuto ma anche della mia pratica di sociologo e della mia esperienza politica con un linguaggio che non fosse né quello proprio della sociologia né quello proprio della politica. Bensì la lingua di una narrazione che parla di cose e persone, di fatti storici e di sentimenti individuali e collettivi e propone anche analisi sociologiche e tematiche politiche attraverso il racconto, l'intreccio, la memoria, l'avventura e la comicità. Molta comicità. Spero di esserci riuscito».

A proposito di incontri, ci racconta come è andata la storia "di quel verso di una celebre canzone di Zucchero, "Solo una sana e consapevole libidine salva i giovani dallo stress e dall'Azione cattolica"?

«Enzo Balboni, docente di diritto pubblico e costituzionale presso l'Università Cattolica di Milano conserva un foglio, risalente inconfutabilmente al 1968, dove io ho scritto esattamente quei versi. Vent'anni dopo sarebbero stati cantati da Zucchero. Questa è la mia ricostruzione: appresi quei versi, e forse collaborai alla loro scrittura, all'interno dell'associazionismo cattolico sassarese, dove l'autoironia era coltivata, e li portai con me a Milano, quando mi ci trasferii alla fine degli anni Sessanta. Probabilmente quei versi circolavano in altre città, venivano pubblicati nei giornaletti e li si ascoltava nelle assemblee nazionali dell'Azione Cattolica. Erano nell'aria e, anni dopo, qualcuno li raccolse e li inserì in quella canzone di Zucchero. Ma il primo documento autentico e autografo che li riporta, quei versi, è probabilmente quello scritto da me. Questo, devo dire, è uno dei tanti incontri, spesso imprevedibili e surreali, qualche volta pazzoidi, che ho voluto raccontare. Come quando Ornella Vanoni, sotto il casco del parrucchiere, mi telefonò per parlare di teologia; o come quando ho rischiato di far soffocare dalle risate Gino Paoli, raccontandogli dell'interpretazione lubrica che noi, adolescenti sassaresi decisamente assatanati, davamo di alcuni suoi versi così eterei; o, ancora, gli incontri con Renato Zero, Umberto Bindi e Tony Dallara. Ma non è un viaggio nel passato, il racconto arriva fino a oggi e ai musicisti di oggi».

Che cosa pensa della confusione che spesso vien fatta tra poesia e musica leggera?

Che fa male all'una e all'altra. La poesia è una cosa. Altrove, né sopra né sotto, sta la canzone. Considerare una canzone solo per il suo testo e, quando ci piace, dire che "è vera poesia" è un errore grave. Perché una canzone è la combinazione tra testo, musica e soprattutto interpretazione. Perché il testo senza la musica non esiste: e quasi mai vale una mediocre poesia. Dunque, una canzone va considerata come una composizione autonoma, appartenente a un campo diverso da quello della poesia, e che può essere bella o brutta se comparata esclusivamente al canone della musica leggera.

Lei sostiene che la canzone politica, in Italia, ha avuto le sue espressioni migliori nei testi non immediatamente politici. Che cosa intende dire?

Ci sono canti politici anche molto belli. Poi, ci sono canzoni non dichiaratamente (non ostentatamente, direi) politiche, che pure trasmettono una idea del mondo e delle relazioni sociali, che può essere definita politica. Penso alle canzoni di “Titanic” di De Gregori, ad alcune di Ivano Fossati, all'ultimissimo Celentano, ma anche a quello di “Il problema più importante” e di “Chi non lavora non fa l'amore”. E penso ancora a molti brani di Sergio Endrigo o a lavori di gruppi recentissimi come Luci della Centrale Elettrica e Offlaga Disco Pax. In tutte queste composizioni c'è una lettura della società e del rapporto tra vita individuale ed esperienze sociali, che rimanda, appunto, alla categoria di politica».

C'è tanta Sassari in questo libro. Ci vuole raccontare dove e quando?

«Beh, io sono un sassarese molto ma molto sassarese, anche se atipico. Molto sassarese perché ho vissuto assai intensamente in questa città i miei primi diciannove anni, facendo qui esperienze fondamentali per la mia crescita. Ho raccontato alcuni episodi, solo in apparenza laterali, di quelle esperienze: dalla vita di parrocchia all'attività teatrale, dagli amori adolescenziali al primo impegno politico. Da quando avevo quindici anni avevo deciso che sarei andato a frequentare l'università "in Continente", ma mai quella scelta l'ho pensata o l'ho vissuta come una fuga. Non avevo delusioni da smaltire o rivincite da prendere o frustrazioni da dimenticare. Avevo vissuto molto bene quei primi diciannove anni e pensavo semplicemente di voler vivere quelli successivi altrove. Ma all'interno di una continuità che, non caso, prevedeva periodici ritorni. Nel libro racconto, appunto, quella continuità e quell'andare e venire: e, a proposito non di me, ma di tanti musicisti sardi, parlo di "musica della transumanza". Ma riguarda in qualche modo anche me».

E c'è anche un po' di Sardegna, da Benito Urgu a Cossiga...

«Certo, quando, ancora liceale mi recai a Roma con Giuseppe de Martini, per partecipare ai campionati nazionali di corsa campestre scappammo per andare al Piper. E lì, tra cappelloni e smandrappati, al centro della pista suonavano – rigorosamente in velluto sardo, nel caldo soffocante di quella sala – i Barritas. Fu un evento mirabile e memorabile. Quanto, ma andate a leggervela nel libro, l'epopea romana e sassarese di Green Tony».

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