La Nuova Sardegna

All’ombra del Supramonte l’orrore della disamistade

di Giacomo Mameli
All’ombra del Supramonte l’orrore della disamistade

Un testo tra storia orale e testimonianza antropologica scritto da Teresa Mele

26 aprile 2012
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di Giacomo Mameli

Se anche Pietro Clemente, uno dei più autorevoli antropologi italiani con dna sardissimo (nato a Nuoro, un tempo cuore della società del malessere) dice che «è un testo difficile per ragioni che possono apparire bizzarre», c'è da rifletterci. E non poco. Perché – quando si parla di devianze sociali – vanno messi in campo tutti gli strumenti del ragionamento, senza frasi fatte né luoghi comuni, senza condanne né assoluzioni frettolose davanti a uno dei fenomeni - quello del banditismo sanguinario del primo dopoguerra - che ha segnato la Storia, facendo rimbalzare il nome della Sardegna e della Barbagia Oltretirreno e Oltralpe. La prima delle bizzarrie: il libro propone, in positivo, «un eccesso di offerta di temi antropologici». Ci pensa poi un'altra studiosa, Giannetta Murru Corriga, a tratteggiare un quadro altrettanto bizzarro dal quale emergono «contraddittori rapporti comunitari in cui profonda amicizia e feroce inimicizia sono ugualmente possibili». Sembra così - in quel teatro totalizzante che si chiama Orgosolo - di trovarsi davanti all'ordito di una tragedia greca. Scandita da silenzi, dal fragore di una bomba, «da finestre crivellate dai proiettili", da urla e pianti perché - anche senza far accenno ai fatti criminali più recenti e devastanti - tziu Boelle è stato assassinato nel modo peggiore». Con molte frasi in sardo che hanno l'imprimatur del linguista Giulio Paulis.

Storia e storie di ieri. Raccontate con un linguaggio verità che non è quello, per certi versi assolutorio a prescindere, di figure-mito di prima grandezza come Franco Cagnetta o Vittorio De Seta. E questo è uno degli aspetti più interessanti di questo libro, perché qui emergono semmai Peppino Fiori della “Società del malessere” e Gigi Ghirotti di "Mitra e Sardegna". Ma con una conoscenza che arriva da dentro, “dae sas intragnas”, “imo cordis” e che offre un'interpretazione vissuta, ma non per questo meno coinvolgente e veritiera. Con pagine di amore vero verso Orgosolo, le sue donne, tzia Luisa e tzia Juvanna, i riti di Sa Candelarìa, “su harvone”, con una separazione netta dalla tragedia familiare. Teresa Mele non generalizza. E sono gli stessi orgolesi che «fanno una colletta in tutto il paese, bussano a tutte le porte e tutte le porte si aprono». È la Orgosolo civile dei giorni dopo le tempeste, che esiste al di là di tutto.

Storia scritta, con un linguaggio che più schietto e perfino coraggioso non si può, da una donna di Mamoiada, partita dal paese dov'era nata da quando aveva sedici anni e trasferita in Piemonte. Qui è diventata mamma, qui vive e qui ha fatto per decenni l'infermiera professionista dopo una breve esperienza mistica "in una comunità di religiose laiche" dalla quale va via per non peccare di "servilismo". Nel turbine di "tormenti interiori" nasce - pur sentendo "un disagio forte che ti rode dentro" - l'idea di questo voluminoso libro-confessione di 740 pagine, "Addio a Orgosolo", sottotitolo "Memorie di una barbaricina" pubblicato dal Cisu di Roma nella collana diretta da Clemente "Finzioni vere, storia di vita per l'antropologia".

Libro verità della figlia di Chiccu Mele piccolo impresario-boscaiolo e di Peppanna Cadinu. La famiglia da Mamoiada si trasferisce a Orgosolo dove – sottolinea Pietro Clemente con riferimento ai sociologi George Simmel e René Girard – il padre impresario viene subito considerato un invasore, anzi “uno straniero interno” perché "lo straniero", anche se arriva ad Orgosolo da Mamoiada, "mette in crisi le comunità tradizionali, non è il viandante che passa ma colui oggi viene domani rimane". E dà fastidio.

Eppure Teresa si sente a casa, come se fosse al suo paese: «Da quando ho memoria di me stessa, parlavo mamoiadino con i mamoiadini e orgolese con gli orgolesi, così che mi sentivo mamoiadina e orgolese allo stesso tempo e amavo i miei due paesi». Prima casa nel rione Mazzai, "in su palathu". Poi a Punzitta. Tempi bui, disamistade, morti ammazzati, agguati, taglie. Barbagia Far West. Nel novembre del 1954 «dopo aver seminato per anni il terrore in tutto il Nuorese, quando quel terrore ha cominciato a minacciare e falcidiare gli orgolesi, è stato ucciso il famoso bandito Bascale Tandeddu». È il 1960. «Cose orrende accaddero quell'anno con l'uccisione e il sequestro di Pietrinu Crasta». Estorsioni continuate, imboscate, assalti in armi alle corriere, carabinieri uccisi, lettere minatorie con due segni croce. Una va anche a casa Mele, per l'impresario, l'industriale, il manager venuto non "da lontano" ma comunque "da fuori". Testuale, tutto in minuscolo: "guarda bene signor chiccu mele cuesta è l'ultima lettera se no porta i soldi a pinzellu il 19 di giugno, se no devi ismigrare da orgosolo setu la lettera la porti in caserma per noi ellostesso niente pensati bene». Non una ma tante lettere.

Stare sotto il Supramonte? No. «Ai primi del febbraio del 1961 la nostra famiglia lascia Orgosolo e ricomincia a vivere a Mamoiada nella più cruda incertezza e precarietà. Seguirà il pignoramento dei mobili, la malattia di mia madre, una vera catastrofe». Ed ecco perché la radiografia di Teresa Mele non è compiacente. A dirlo senza eufemismi è proprio Giannetta Murru perché l'autrice «respinge la visione del banditismo orgolese e dei suoi eroi enfatizzata dai mass-media acriticamente accolta anche dal regista De Seta in Banditi a Orgosolo». Per la Murru Corriga, Teresa «compie una lettura critica di testimonianze, delinea una interpretazione del banditismo che in qualche modo sembra evocare l'idea forse non nuova di accumulazione capitalistica primitiva». E la Mele contesta un parroco, don Giovanni Sanna che «ha totalmente e vergognosamente rimosso, cancellato la nostra storia. Frutto, a mio avviso, di una cattiva coscienza».

Libro da leggere. Libro da capire. Parla dei murales dove non compare «il dolore atroce delle madri orgolesi che hanno pianto la vita dei giovani figli spezzata dalle vendette e dalle lunghe faide fratricide». Il libro propone analisi controcorrente. "Quei murales non ci raccontano niente di quelle tragedie. Non ci raccontano di don Michele Cadoni che ha dovuto lasciare Orgosolo perché un altro uomo innocente è stato ucciso al suo posto. Parlano solo, e bene, di Ho Chi Min e di Che Guevara, di Antonio Gramsci e di Emilio Lussu. Ma c'è il silenzio sulle cose di casa. Sulle vedove e sugli orfani dei mitra. «Non parlano della tragedia del pacifico commerciante Pietrinu Crasta. I murales in cui si grida Zustissia Cherimus non hanno spinto Orgosolo a esigere giustizia per l'assassinio di don Francesco Muntoni sacerdote innocente e di Adolfo Senes». Conclude Pietro Clemente: «In questo libro nessuna croce manca. Le storie di vita sono un dono al valore sempre nuovo e plurale della vita». Una vita che riporta Teresa a vedere i luoghi dove aveva vissuto bambina. «E mi sento rappacificata con Orgosolo, la mia seconda patria».

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