La Nuova Sardegna

Un turacciolo dimenticato in una ferita: così Mameli morì per errore medico

Eugenia Tognotti
L’esercito garibaldino in battaglia e a destra un ritratto di Goffredo Mameli, scomparso a 22 anni nel 1849 Sotto, la medicazione di un soldato e in basso ancora Mameli
L’esercito garibaldino in battaglia e a destra un ritratto di Goffredo Mameli, scomparso a 22 anni nel 1849 Sotto, la medicazione di un soldato e in basso ancora Mameli

03 novembre 2011
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Nelle tante celebrazioni ufficiali dei 150 anni dell'Unità d'Italia, la fine di tanti giovani e giovanissimi patrioti resta sullo sfondo, in una nebulosa di virtù eroiche che non contempla la sofferenza e la morte dei singoli. Non fa eccezione l'autore delle parole dell'Inno nazionale, Goffredo Mameli, una delle figure più famose del Risorgimento, vittima, a 22 anni, di "fuoco amico", dell'arretratezza della chirurgia, di una concatenazione di errori medici: i chirurghi non si accorsero di un turacciolo nella ferita che provocò la setticemia, subentrata alla gangrena della gamba amputata. Il poeta patriota morì la mattina del 6 luglio 1849 "...cantando, quasi conscio di sé". Una vicenda poco o per niente conosciuta, sepolta nelle Memorie del garibaldino Agostino Bertani, ufficiale medico dei volontari di Garibaldi nella II Guerra d'Indipendenza, e destinato a diventare il capo della Sinistra extraparlamentare repubblicana e mazziniana nel Parlamento dell'Italia unita. Goffredi Mameli era nato a Genova nel 1847: sua madre era una nobildonna genovese, Adelaide Zoagli. Suo padre, Giorgio, era di origine sarda, comandante di una squadra della flotta del Regno di Sardegna: nel 1835, durante l'epidemia di colera che infuriava in Liguria, aveva imbarcato la sua famiglia sulla corvetta Aurora in partenza per Cagliari, che in quella prima ondata epidemica aveva risparmiato la Sardegna. Fervente patriota, vicinissimo a Giuseppe Mazzini, in prima linea nei moti del'48, Goffredo aveva raggiunto Roma nel 1849 per difendere la Repubblica romana dall'assedio dei francesi del generale Oudinot Ma il 3 giugno, in un furioso combattimento fuori Porta San Pancrazio, fu ferito da una palla partita dall'arma di un compagno della legione di Luciano Manara. Penetrando a livello della gamba sinistra aveva perforato l'osso, uscendo al di sopra della fibula. Privo di sensi, e "in uno stato quasi di stupefazione" fu trasportato all'antico Ospizio della Trinità dei Pellegrini, trasformato in un Ospedale militare. Tre ore dopo, lo visita il chirurgo Pietro Maestri, amico di Bertani. Stando alla sua testimonianza "portava alla coscia una fascia compressiva" cosa che faceva pensare "a un'emorragia occorsa durante la prima medicazione". Così il chirurgo della sala fu indotto " a rispettare una medicazione, la quale per fatalità era operata col solito mezzo adoperato a Roma, con compressa cioè di fìlacci fortemente applicati e introdotti nelle aperture e uscita della ferita". Ritirata solo al terzo giorno, quell'applicazione "manteneva il dolore e quindi l'irrita-zione, e fomentava l'infiammazione invadente delle parti". Poco a poco il gonfiore si estese a tutta la gamba. A metà Ottocento - si sa - le possibilità della chirurgia erano ridotte al minimo, non potendo contare su antisepsi, asepsi, anestesia. Se gli ospedali civili erano l'anticamera della morte, data la tremenda minaccia delle infezioni e della setticemia, si può immaginare cos'erano quelli messi in piedi frettolosamente, con chirurghi e studenti di Medicina volontari, assistiti da infermieri improvvisati. Il trattamento comincia con un salasso generale e applicazione di ghiaccio. Ma al quarto giorno compaiono "macchie livide in corrispondenza del malleolo, sintomo della gangrena invadente". Si procede " con pezzi bagnati col decotto di china".  Il malato è assistito dalla sua donna, la bella patriota veneziana Adele Baroffio e da Cristina di Belgioioso cui Mazzini aveva affidato la direzione di una rete di ospedali a Roma. Coltiva qualche speranza di guarigione. scrive all' amico Nino Bixio: «Fratello mio, due righe alla meglio come concede il mio stato di semicrocifissione; la mia ferita va migliorando, però temo sarà una cosa lunga: pazienza". Ma, presto, le sue condizioni cominciano a peggiorare. Il 19 è chiamato Agostino Bertani, che nel suo dettagliato resoconto, non manca di evocare gli errori nella cura. "Seppi poi per indagine che la cura della flemmonasia andò come Dio vuole. Fra gli altri accidenti i curanti s'accorsero parecchi giorni dopo della presenza di un turacciolo nella ferita. Un flemmone condusse a gangrena la gamba. Io la vidi già gangrenata fin quasi a quattro dita al di sotto al ginocchio: v'era qualche lembo posteriore ancor vìvo, la linea di separazione era marcata". Non restava che procedere all'amputazione.  Eseguita dal chirurgo Baroni, l'operazione si svolge senza complicazioni: l'ammalato aveva perso poco sangue e "il moncone si era riunito bene trasversalmente". Ma ben presto il malato comincia a lamentarsi " di dolor fisso all'inguine sinistro senza che corrisponda al tatto: io dubito di suppurazione alle ghiandole iliache e mesenterìche. Il ventre è un po' tumido, seguita la febbre, l'inquietudine massima, il sub-delirio sotto la febbre comincia, si mettono cataplasmi sull'inguine". A fine giugno, Bertani è ormai certo della fine imminente del giovane patriota, tanto che scrive al marchese Santo Cambiaso di avvertire la famiglia. La mattina del 5 l'ammalato sembra migliorare: "Ha polsi piccoli, faccia sparuta, capogiro, sussulti. "Ma alla notte toma a infierire il sub-delirio; canta, ride". La mattina dopo, Goffredo Mameli muore alle sette e mezzo antimeridiane. Il 7 luglio - scrive Bertani - fu fatta una piccola apertura nel ventre per iniettare l'arsenico. Non si è fatta la sezione perché volevasi l' imbalsamazione. Io gli tagliai un po' di capelli e un po' di barba in memoria di tanto ingegno, di tanto amore d' Italia e di tanta sventura".
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