La Nuova Sardegna

Sa strangìa, una lezione di tolleranza

Giacomo Mameli
La sfilata dei panni colorati è uno dei momenti della festa di sa strangìa le cui origini risalgono alla metà del Settecento A destra Marco Masini
La sfilata dei panni colorati è uno dei momenti della festa di sa strangìa le cui origini risalgono alla metà del Settecento A destra Marco Masini

Risalgono al Settecento le origini della festa dell'accoglienza allo straniero

11 settembre 2011
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Il mito dell'ospitalità sarda, basata sul rispetto e la cura del forestiero, ha avuto un suo profeta. A metà del 1700 un parroco di Perdasdefogu aveva predicato dal pulpito le regole della buona accoglienza e dell'integrazione sociale. Si chiamava don Giovanni Corona, figlio di Giuseppe e Barbara Usala, "ordinato sacerdote a Cagliari il 21 settembre 1715, curato a Foghesu dal febbraio 1719 al dicembre 1721 e poi dal gennaio 1723 all'8 novembre 1741. Morì con i sacramenti", si legge negli archivi diocesani raccontati dal vescovo di Lanusei monsignor Antioco Piseddu.  La storia è tanto semplice quanto esaltante. E in questi anni Duemila dà una lezione di civismo a orde crescenti di intolleranti e razzisti. E trova un autorevole avallo generale nel volume sul Settecento scritto dallo storico Luciano Carta e curato - per La Nuova Sardegna - da Manlio Brigaglia.  La vicenda foghesina - legata a "Sa dì'e sa strangìa", giornata unica in Sardegna in onore del forestiero e che si celebra sempre l'11 settembre da almeno tre secoli - nasce in un momento in cui l'avversione verso i piemontesi è elevatissima. Del resto, dal 1300 nell'Isola era molto popolare e condiviso il detto "Furat chie benit dae su mare", è un ladro, un invasore chiunque arrivi dal mare. Sì, grande amore verso gli stranieri - étranger in francese, strange in inglese, strangiu in sardo - non ce n'era. Neanche a Foghesu, villaggio isolato del Marchesato di Quirra. L'ostilità verso chiunque sbarchi dal Tirreno è accentuata. Non cambia con l'arrivo degli Spagnoli e dei Piemontesi. Basta leggere l'inno di Francesco Ignazio Mannu noto come Procurade e moderare. Alle strofe 32-33 si dice: "Fit pro so Piemontesos sa Sardigna una cuccagna", e più avanti: "Malaitu cuddu logu chi criat tale zenia, maledetto la terra che ha dato i natali a simile genìa".  Proprio un piemontese - pare si chiamasse Càndia - verso il 1730 si trova a Perdasdefogu per fare incetta di legni pregiati di olivastro e leccio. Le operazioni di taglio si facevano soprattutto in due steppe: "Masongili'eranu" verso Ulassai e "Corràli" verso Tertenia, oltre le cascate di Luèsu. Si dice che gli olivastri fossero delle dimensioni di quelli millenari di Santa Maria Navarrese. Oro per la flotta Savoia. Il legname veniva caricato sui carri a buoi e arrivava al porto di Arbatax. Da qui, su bastimenti e brigantini, prua verso Imperia dove il regno sabaudo aveva i cantieri navali.  Flashback di trecento anni. Un pomeriggio di un 11 settembre degli anni Trenta l'industriale Candia passeggia da solo per lo "stradone" di Foghesu, paese ricco di povertà. Gli uomini sono intenti a preparar gli arrosti per la festa del Salvatore che si svolge (dal 1600) il 12 settembre. I bambini sono al fiume a tagliar canne sulle quali issare i "panni" colorati a forma di croce. Le donne ripuliscono le strade oppure pensano a portar fiori nella parrocchiale a tre navate di San Pietro da dove le statue dei due "santi", il Salvatore e San Giovanni Battista, verranno poi trasferite in processione nella chiesetta di campagna, sopra la fonte dei miracoli, davanti a una distesa di fertili orti. Don Corona avvicina il piemontese, gli spiega perché nel paese sono tutti indaffarati e lo invita a cena nella canonica del rione "Sa muragessa". L'indomani, durante la messa nella chiesetta campestre il parroco racconta della serata passata col forestiero. I fedeli ascoltano, in prima fila i confratelli e le pie donne con fiocchi rossi e celesti. Dice, con rima foghesina doc: "Prus unu esti strangiu, prusu di depeus essi cumpangiu", più uno è forestiero e più dobbiamo fargli compagnia. E ancora, con frase evangelica: "Seus totus fradis, filgius de una matessi babbu. E chi capitaus nosu in logu algènu? Siamo tutti fratelli, figli di uno stesso padre. E se ci trovassimno noi all'estero?". È a questo punto che il parroco battezza una festa laica di alta civiltà, riscatta il "furat" e dice che "proprio nei giorni di festa dobbiamo ospitare un forestiero, e per su stràngiu possiamo fare sempre Sa dì'e sa strangìa. Sulla terra siamo tutti uguali". In chiesa capiscono. Il piemontese Candia ascolta commosso. A pranzo è ospite del capo obriere nel rione Santonalài.  La vicenda si sarebbe persa se - a metà degli anni Trenta del Novecento - non l'avesse raccontata a cugini e conoscenti un altro sacerdote di Perdasdefogu, il canonico Priamo Maria Spano (1871-1959). A fine Ottocento l'aveva a sua volta sentita da don Vittorio Cannas che invitava i fedeli "a rispettare e onorare tutti i forestieri che sono nostri fratelli". Esisteva un foglio sul quale - riferiva il canonico Spano - proprio "predi Corona" aveva messo nero su bianco la nascita de "Sa Strangìa", documento che fu conservato fino al 1865 da don Giovanni Antonio Naitana. E andò forse in fumo. Secondo alcuni (mancano riscontri) Sa Strangìa era già in uso dai primi del 1700 quando parroco era un altro sacerdote di Perdasdefogu, don Girolamo Sulis (nato da Andrea e Nicolina Vacca, battezzato il 16 settembre 1690 e curato dal 6 gennaio 1713 al 24 gennaio 1718 prima di essere trasferito a Villaputzu, Tertenia ed Elini). Parlava di Strangìa anche don Sebastiano Lai "consacrato il 14 agosto 1794, committente dell'attuale chiesa parrocchiale neoclassica con impresario - riferisce Felice Tegas, capo sacrista e storico - il cagliaritano Antonio Porcu Raminy). Non si trovano tracce precedenti. Perché, conferma Piseddu, "mancano del tutto i registri dal 1628 al 1689".  È rimasta la tradizione. Radicatissima nel Dna dei foghesini. Si rinnova ogni anno con crescente partecipazione. Sacro e profano. Non mancano mai le launeddas, oggi Tore Orrù allievo di Luigi Lai, prima Aurelio Porcu e Peppino Depau con l'organetto di Picòssariu e Pietrino Cabitza. Durante la seconda guerra mondiale la festa era solo religiosa, i panni-palio dedicati ai soldati morti nel gelo del Don.  Con gli ex voto si invocano guarigioni da mali atroci, si sospira un posto di lavoro per un figlio disoccupato. Il clou è la sera dell'11 quando scatta il piacere di ricevere gli ospiti, "gente di rispetto". La memoria storica del paese, Consòla Melis che porta egregiamente i suoi 104 anni, ricorda gare poetiche con la poetessa in limba Maria Farina di Osilo, il padre Antoni Farina di Santa Vittoria di Osilo e Pitanu Moretti di Tresnuraghes. Maria Farina - anno 1922 - esaltava "Sa Strangìa, de istima monumentu". Lo fece anche un altro mito della poesia dialettale, Beppe Sotgiu di Bonorva ("Foghesu tue s'istranzu l'onòrasa/ e sempre in domo tua lu repòsasa").  La festa è rimasta immutata. Ogni famiglia invita a casa amici veri (nell'ultimo secolo gli "stranieri" sono stati soprattutto i pastori e le famiglie di Arzana e Villagrande che pernottavano per la transumanza delle greggi dal Gennargentu al Cardiga). Per "Sa festa" del 12 sfileranno di nuovo decine di panni colorati intrecciati alle canne dalle mani di Maria Serdinu. Dal pulpito si riparlerà di temi religiosi e civili. Anche di quelli dell'ospitalità invocato da Corona. Aveva detto le cose che anche pochi giorni fa - citando un documento del Parlamento europeo sui diritti dei migrantes - esaltava su La Stampa Zagrebelsky. "Il forestiero è un nostro fratello. Gli uomini, sulla terra, siamo tutti uguali".
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