La Nuova Sardegna

Il patto con il diavolo di Tiberio Murgia Il re dei caratteristi

Fabio Canessa
Tiberio Murgia con il regista di «Ribelli per caso»
Tiberio Murgia con il regista di «Ribelli per caso»

Oggi, a un anno esatto dalla morte dell'attore, Nicola Fano presenta in anteprima il libro «Ferribotte e Mefistofele»

20 agosto 2011
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 SASSARI. Può un ruolo secondario, all'esordio, consegnare un attore alla storia del cinema? Sì, se il regista è Mario Monicelli, il film è un capolavoro come «I soliti ignoti», e il personaggio è come Ferribotte.  Tutti conoscono così Tiberio Murgia, con il nomignolo (storpiatura dell'inglese ferry boat, traghetto) del geloso immigrato siciliano componente della banda romana di improbabili ladri che interpreta nel film simbolo della commedia all'italiana.  Sull'attore diventato famoso come siciliano, ma in realtà sardo (di Oristano), uscirà a settembre «Ferribotte e Mefistofele - Storia esemplare di Tiberio Murgia» (Exormaedizioni, 144 pagine, 14 euro). Il libro, scritto da Nicola Fano, sarà presentato oggi in anteprima al festival di Rebeccu (alle 19.30 al belvedere con introduzione di Sergio Scavio) in occasione del primo anniversario della morte dell'attore, scomparso esattamente il 20 agosto 2010. A parlarne sarà ovviamente l'autore, il giornalista romano, storico del teatro e firma di diversi spettacoli teatrali. - Fano, perché ha scelto si scrivere un libro su Tiberio Murgia?  «L'idea nasce inizialmente dalla voglia di scrivere qualcosa sulla Sardegna che ho scoperto tardi, ma di cui mi sono appassionato. L'ho girata, studiata. E cercando una figura che potesse rappresentarla, considerato anche che da molti anni racconto il teatro e gli attori comici, alla fine è uscito fuori il nome di Murgia. Un sardo che per far fortuna aveva rinunciato alla propria identità». - Da qui deriva allora il Mefistofele del titolo?  «Sì. Un patto con il diavolo con il quale rinuncia alla propria identità e alla sua voce, perché viene doppiato sia al cinema sia al teatro. Come in una versione proletaria del Faust rinuncia in cambio di fama e successo. E rispetta con tenacia questo patto usando la sua voce soltanto in poche scene di alcuni film minori. Una tenacia, una testardaggine da vero sardo in questo caso». - Com'è strutturato il libro?  «Non è una biografia classica, rigorosa. Risulta più un'inchiesta che racconta un pezzetto dell'Italia proprio attraverso la rinuncia di questa persona alla propria identità locale. Una rinuncia che pensando un po' anche a oggi, contraddice totalmente l'idea della Lega, di un localismo becero. Aveva altri sogni, ha fatto altre scelte che derivano anche dall'infanzia difficile, dal passaggio da minatore, a lavapiatti a stella del cinema. Un personaggio inventato. Non era un vero attore, non aveva nemmeno la tecnica». - Però è un esempio degli indimenticabili caratteristi che hanno contributo a fare grande il cinema italiano nel Dopoguerra.  «Assolutamente sì. I caratteristi sono stati molti importanti, arricchiscono quei film raccontando meglio l'Italia nella sua complessità, nelle sue diverse sfaccettature». - Ha avuto modo di conoscerlo di persona?  «No, avrei voluto incontrarlo quando stavo pensando al libro che poi ho scritto dopo la sua morte. Ho raccolto testimonianze di persone che hanno lavorato con lui, di colleghi giornalisti che l'hanno intervistato». - E ha scoperto qualche aneddoto che può anticipare ai lettori?  «Con gli aneddoti bisogna stare sempre attenti, soprattutto quando si parla di attori. Perché mentono quasi sempre. C'è quello famoso in cui Tiberio Murgia racconta come è sfuggito alla morte a Marcinelle quando faceva il minatore in Belgio: dice di essersi finto malato per poter andare a letto con la moglie di un compagno di lavoro. Ci ha sempre provato con le donne, moralmente era una persona abbastanza discutibile. Ma quella storia forse, probabilmente è falsa. Ma anche storie non veritiere aiutano a raccontare, a capire il personaggio».
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