La Nuova Sardegna

Ploaghe, turismo e «sistema»

Ploaghe, turismo e «sistema»

04 agosto 2011
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Fare sistema. Dice: «Bisogna fare sistema», E’ come una parola d’ordine. Somiglia al comando usato nella marineria borbonica quando si diceva «Fare ammoina»: al segnale tutti quelli che erano a bordo si dovevano muovere, correndo in una direzione qualunque purché andassero. Gianni Brera rese famosa l’espressione quando cominciò ad usarla per il tic-titòc del palleggio a metà campo, quello che lui chiamava (anche) «gnàgnera di primavera». Torniamo a noi. Che cosa significa «fare sistema», per esempio, nel turismo del Sassarese? Dovrebbe significare mettere insieme tutte le offerte di natura, arte e storia per ingolosire il turista a muovere il sedere dalla sedia sdraio e andare per paesi e borghi vicini. Io faccio spesso l’esempio di Ploaghe. Che ha avuto (e ha memoria di) cittadini importanti come il canonico Spano e Giommaria Lei-Spano, ha una pinacoteca che, ad onta di tutte la fantasiose attribuzioni suggerite dal buon canonico, merita di essere vista.

Ora ha un convento, da poco restaurato, che è bella testimonianza di quella vita delle comunità religiose di cui si arricchì e forse anche si formò lo spirito del villagggio. Fondato dal padre (ploaghese anche lui) Nicolò Pisquedda nel 1654, ospitò intere generazioni di francescani sino a quando, nel 1866, se lo prese lo Stato. Ora, restaurato intelligentemente dall’amministrazione comunale, ospita manifestazioni culturali che hanno come valore aggiunto il fascino del chiostro e delle grandi architetture. Come non bastasse, Ploaghe ha anche un cimitero storico, dove ci sono un quaranta lapidi scritte in sardo: è capitato di chiamarlo «il Pantheon della lingua sarda», anche se poi quella che parliamo è diversa dal logudorese fortemente latinizzato che a metà Ottocento veniva propagandato dalla coppia canonico Spano-rettore Cossu. (Ploaghe è anche, per chi volesse fare sistema fino in fondo, il paese natale di Eva Mameli, grande botanica, mamma di Italo Calvino. Chi ha di più alzi la mano).

Cantando «Dimonios». Non so chi se n’è accorto. In qualcuna delle infinite scene del delitto della signora Melania che ci vengono quotidianamente riversate dalla cosiddetta tv del dolore c’è una scena dove si vedono le soldatesse che suo marito Parolisi istruiva a tornare a ranghi compatti in caserma, lì dalle parti di Ascoli Piceno (o di Teramo? Insomma, da quelle parti). Le soldatesse cantano. Per dire come tutto il mondo è paese, cantano «Dimonios», l’inno della Brigata «Sassari».

Il default.
Non abbiamo dormito sino ad avantieri per paura del default americano. La parola si è così rapidamente diffusa che l’ho sentita usare per la sconfitta dell’Inter col Manchester City. Secondo un antico uso, ci manca soltanto la mamma che esce dal colloquio con i docenti e dice: «Me’ figlioru ha abuddu un defòl in matematica».
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