La Nuova Sardegna

Debito Usa: un difficile compromesso che mette a rischio i mercati

Franco A. Grassini

Nel prossimo decennio verranno tagliate spese per 2,5 trilioni di dollari ma per molti analisti la cura sarà insufficiente

04 agosto 2011
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Costretti dal pericolo di un’impossibilità a pagare i debiti dello Stato Federale, democratici e repubblicani Usa hanno raggiunto un difficile compromesso per ridurre un indebitamento che, non i mercati, ma gli estremisti del tea party, reputano eccessivo. Di fatto verranno tagliate nel prossimo decennio spese pari a 2,5 trilioni di dollari, vale a dire lievemente meno di un quarto del reddito nazionale. Ma decisamente inferiori a quelle che una commissione bipartitica aveva suggerito circa un anno addietro. Meno della metà dei tagli menzionati sono già precisamente indicati e ne includono uno cospicuo alla difesa,mentre per gli altre dovrà decidere una nuova commissione paritetica tra i due partiti, con drastici interventi automatici in caso di mancato accordo.

La stessa commissione avrebbe il potere di aumentare le entrate per ridurre i tagli, ma la maggior parte dei commentatori ritiene piuttosto difficile che i repubblicani le permettano. Forti come sono per aver imposto un compromesso in cui le loro tesi hanno prevalso perché il default avrebbe provocato conseguenze disastrose. Obama responsabilmente non se la è sentita di scherzare con il fuoco e trarne il presumibile vantaggio elettorale accusando i nemici per averlo acceso, come era avvenuto,in circostanze molto meno drammatiche, a Clinton negli anni’90. Non a caso molti economisti che avevano collaborato con lui in posizioni governative sono tornati ai loro studi e il premio Nobel Paul Krugman pochi giorni addietro lo ha definito un “conservatore moderato”.

Le conseguenze di questo compromesso rischiano di essere molto negative per l’economia degli Stati Uniti. La ripresa dopo la crisi del 2008/2009, è molto modesta e sembra quasi essersi appiattita con una crescita di poco superiore all’1% nel secondo trimestre del 2011. Per giunta la disoccupazione ufficiale è al 9% e quella di fatto,considerando cioè anche gli scoraggiati che hanno smesso di cercare lavoro, al 12%. In una situazione del genere nuovi tagli alla spesa pubblica, in particolare quelli a sostegno dell’occupazione, rischiano di trasformarsi in ulteriori riduzioni di una domanda già debole tanto dal lato dei consumi, quanto da quello degli investimenti sia privati sia pubblici.

Né si può sperare, come ardentemente sostengono i repubblicani che fanno capo al tea party, che la prospettiva di un risanamento del bilancio federale dia vita ad un clima di fiducia che induca gli operatori a spendere e rianimare in tal modo un’economia quasi in affanno. Tanto più ove si consideri che i veri problemi della spesa pubblica statunitense, quelli derivanti dall’invecchiamento della popolazione e dalla conseguente crescita delle pensioni e delle spese mediche, sono destinati ad esplodere tra una decina di anni, non ora e rischiano, salvo una qualche nuova ondata di rivoluzioni tecnologiche, di dover essere affrontati da posizioni di maggior debolezza se manca una consistente ripresa.

L’economia dell’offerta ha già mostrato la sua illusione ai tempi di Ronald Reagan. Rischiano trovare conferma anche in questo caso i numerosi studi che indicano come le riprese successive a crisi finanziarie tendano ad essere piuttosto lente e spesso procedano con alti e bassi.

È di tutta evidenza che una ripresa americana asmatica non mancherà di avere ripercussioni su tutta l’economia mondiale sia perché la domanda di beni da parte degli Stati Uniti interessano tutti,dalla Cina al Brasile, sia perché da maggiore risalto alla questione degli squilibri delle bilance dei pagamenti. Se il dollaro si indebolisce tutto il sistema finanziario internazionale ne risente. Anche l’uscita dell’Italia dalla lunga fase di quasi immobilismo diventa più ardua.
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