La Nuova Sardegna

Storia di Zezi, ragazza perduta

Costantino Cossu
La copertina del libro
La copertina del libro

Nella Sassari Anni 50 l'amore tra un magistrato e una diciassettenne

22 febbraio 2011
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Un racconto scritto nel 1992, «Dedica», entrato nella raccolta che in quell'anno Einaudi pubblicò con il titolo «La figlia perduta», ora ripreso e riscritto. Un'operazione che doveva essere, trascorsi quasi vent'anni, di semplice limatura di un testo per una nuova edizione. E invece è andata in maniera molto diversa. Perché a quel racconto Salvatore Mannuzzu ha rimesso mano in maniera radicale, in un passaggio che dalla routine ha virato inaspettatamente verso un sostanziale cambio di prospettiva del sentimento del mondo dell'autore e quindi della sua scrittura. «Dedica» è diventato «La ragazza perduta», riacquistando il titolo originale - quasi simile a quello dell'intera raccolta del 1992 - che Einaudi a suo tempo scartò perché identico a quello di un romanzo di D.H. Lawrence.

E' la storia d'amore tra un magistrato non più giovane, arrivato a Sassari dalla penisola, e una ragazza di diciassette anni. Più esattamente, è la storia di quell'amore raccontata da lui a lei quando entrambi hanno percorso l'itinerario delle rispettive esistenze sino alla soglia della vecchiaia. Quindi una storia su ciò che il tempo fa delle persone e delle loro anime, fragili battelli nel mare aperto del destino.

Quando nel 2004 Mannuzzu pubblicò «Le fate dell'inverno» disse in un'intervista che probabilmente sarebbe stato il suo ultimo romanzo. «Mi ero un po' stancato di me - spiega ora - Il fatto è che io non ho mai scritto soltanto per pubblicare. Non sono uno di quegli scrittori tenuti a essere presenti, che un libro lo devono fare altrimenti la gente si dimentica di loro. A questi protocolli non mi sono mai sentito legato. A me stesso per scrivere ho sempre richiesto due cose: la sincerità e la necessità. Sono i miei fantasmi che pretendono che io scriva. Se non c'è questo input non riesco a mettermi alla tastiera. Così mi accadde dopo aver finito "Le fate dell'inverno"».

Una specie di stato di quiescenza che è durato sino a quando, all'inizio della scorsa estate, Einaudi ha proposto a Mannuzzu di ripubblicare due suoi testi: «Procedura» e la raccolta di racconti «La figlia perduta», in due nuove edizioni, la prima nel 2011 e la seconda nel 2012. «Ho pensato - racconta Mannuzzu - che della "Figlia perduta" era meglio ripubblicare soltanto il primo racconto, "Dedica", che ha una sua una autonomia rispetto agli altri altri testi della raccolta. E mi son messo a lavorare come un travet, pensando che sarebbe stata sufficiente, come altre volte mi era capitato, una ripulitura veloce. Ma non è andata così. Ci ho impiegato mesi. Ho cominciato a luglio dello scorso anno e ho consegnato il testo poco prima di Natale. Non è stata un'operazione di routine. Ovviamente volevo rispettare il mio testo del 1992; rispettare ciò che ero allora e ciò che era stata la mia scrittura. Ma dopo quasi vent'anni era inevitabile che la persona che sono adesso - ciò che sono diventato - si facesse sentire. S'è quindi avverata una sorta di mimesi: ho scritto come se fossi quello di allora, ma cambiato dai due decenni trascorsi. Ne è scaturita una riscrittura fittissima».

Salvatore Mannuzzu ha consegnato all'editore il racconto rifatto il 10 dicembre 2010. Il 28 dello stesso mese il narratore che s'era stancato di sé e non voleva più mettere sul foglio neppure una riga ha cominciato a scrivere una nuova storia, che ormai è arrivata alle 200 mila battute. Ancora una volta, quindi, sincerità e necessità; quando non sembrava più possibile. E' evidente che «La ragazza perduta» ha mosso qualcosa. Mannuzzu lo spiega: «Riscrivendo ho capito perché non volevo più raccontare storie. Geno Pampaloni, in una recensione alla raccolta del 1992, citando due passaggi dal mio testo, scriveva: "La scrittura di Mannuzzu è piana ma ricca di vibrazioni sottili, come se il soffio della vita non finisca mai, convivendo sommessamente con la disperazione; una disperazione per così dire cementata dall'accettazione, poiché sempre si guarisce in qualche modo dalla vita".

Ed effettivamente io ero così. Riscrivendo "Dedica" mi sono reso conto che quel tempo per me è finito. Quello era il tempo dell'elegia. "La ragazza perduta", tutta la raccolta, è una elegia. C'è disperazione, ma accettata sommessamente: "Si guarisce in qualche modo dalla vita". Ora invece io protesto contro questa mia affermazione di allora. Oggi dico che dalla vita non si guarisce. La storia che adesso sto scrivendo è esattamente questo: non accetto più, sommessamente, la disperazione, protesto contro la disperazione in pagine in qualche modo beckettiane. Il mio tempo di oggi non è più elegia, è tragedia. E non è una cosa che è successa soltanto dentro di me. Dentro di me è accaduto che ho 81 anni e non più 61 come nel 1992. Ma è cambiato anche il mondo attorno. Ciò che ci tocca vedere - e che magari nelle pagine che ora scrivo non c'è in modo diretto - non consente più una sommessa accettazione della disperazione. I fatti gridano vendetta. Stiamo arrivando a un punto terribile di rottura, di evidenza della rottura. Vent'anni fa certo i problemi non mancavano, ma in qualche modo c'era una compensazione. Ora siamo di fronte a una paurosa sfaldatura. Dietro la scrittura c'è sempre una vita. Rimettendo mano a "Dedica" ho capito che mi ero stancato di me perché pretendevo da me una continuità che non ci poteva essere. Da questa nuova prospettiva - tragica, senza più alcuna possibilità di conciliazione - scrivere è ridiventato per me necessario. Continuare a farlo dentro la continuità non mi interessava più».

La editor dell'Einaudi che segue Mannuzzu, di fronte alla proposta di un nuovo libro ha chiesto, come normalmente si fa, di avere un'anticipazione. Mannuzzu ha risposto così: «Se chi legge l'anticipazione ti dice che va bene, ne hai conforto. Ma se non gli va bene? Io scrivo solo pagine fatte di necessità e di sincerità (soggettive, s'intende). Pagine magari bruttissime, magari illeggibili: non è questo il mio problema di fondo, quando scrivo. Sincerità nel senso che, sì, proprio quelli sono i miei fantasmi, proprio quello per me lo stato della questione. Necessità nel senso che quei fantasmi e quella questione pretendono che io scriva. Dunque continuerei anche se il più grande critico di questo mondo mi dicesse che sto perdendo tempo. E' un lavoro che non può eludere la solitudine e il mare aperto: senza soccorsi e senza terra in vista. Ho già scritto 200 mila battute. Continuando così, finirò in tempi storici (che devono essere brevi, data la mia anagrafe) e, allora, potrò mandarle il libro».

Che cosa ci sarà dentro il nuovo libro, Mannuzzu non lo vuole svelarlo. «Posso però dirle che scrivendo queste pagine mi scortico vivo. Nel racconto non c'è alcun cenno autobiografico, alcun fatto mio. Però è una storia che mi riguarda così da vicino che credo che in vita non la pubblicherò. Poi non lo so, può pure darsi che cambi idea, ammesso che - visto ciò che è - questo testo lo voglia pubblicare qualcuno. Ma anche se l'editore fosse entusiasta, dubito che lo pubblicherò».
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