La Nuova Sardegna

Thiesi, la storia della caccia raccontata in 500 fotografie

Thiesi, la storia della caccia raccontata in 500 fotografie

Un’idea di Vincenzo Carta, aiutato dall’amico Salvatore Ferrandu

17 settembre 2007
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THIESI. Un tempo c’era anche il muflone, ma dello splendido animale-simbolo della Sardegna è rimasto appena un toponimo che lo ricorda senza possibilità di equivoci: Iscala Murone. In territorio di Thiesi l’ultimo esemplare maschio di cui oggi si abbia certezza fu ucciso alla fine dell’Ottocento. Un’immagine del trofeo di quella battuta d’addio (un primo piano della magnifica testa) è nella mostra fotografica sulla caccia conclusa ieri con un bilancio lusinghiero nel salone intitolato ad Aligi Sassu che ospita quasi tutti gli eventi culturali thiesini. Le 500 foto esposte - scelte tra più di mille - provengono da diverse zone della Sardegna e abbracciano un arco temporale di oltre un secolo: dal 1890 al 2004.

L’idea è di Vincenzo Carta, ex-tecnico di un’azienda telefonica da poco in pensione sulla soglia dei sessant’anni, “cacciatore-cinofilo” per autodefinizione e “innamorato dell’arte”. La passione per i selvatici? «La prima delle arti che il genere umano ha coltivato», risponde sicuro questo fuciliere sui generis capace di incantarsi ascoltando i riti degli indiani pellerossa che chiedono perdono agli animali prima di sacrificarli. «Ho sempre avuto questo incantamento, qualcuna delle foto esposte proviene dalla mia piccola collezione», racconta l’ideatore dell’iniziativa. «Un giorno mi sono detto: vorrei fare qualcosa di diverso. Ne ho parlato con il mio amico Salvatore Ferrandu, un anticaccia. Non è stato facile coinvolgerlo, ma l’amicizia fa questo e altro. Quando ha visto il materiale, il professor Ferrandu ha detto: c’è da studiare, e sotto molti aspetti. In sei mesi ho raccolto mille foto, sacrificandone la metà. Sono stato aiutato anche da altri miei amici. In particolare Michele Piras e Francesco Ruda».

 Tornando all’arte, la mostra ideata da Carta propone un singolare accostamento con la pittura e la poesia: insieme con le foto, sono esposti alcuni dipinti di Tore Mariano e Antoneddu Demartis e diversi testi poetici - sardi e italiani - di autori anche molto noti, scelti da Giovanna Chesseddu e Stefano Ruiu: Paulicu Mossa, Barore Sassu, Gavinu Piredda, Giuliano Ledda, il poeta-cacciatore fratello del compianto Tonino, fondatore del Premio “Citta di Ozieri”. Tocco finale, le ricette creative di Giovanni Fancello in materia di cucina delle carni selvatiche: a loro modo una forma d’arte, vista la genialità dell’autore. «All’abbinamento con i vini penserà Antonello Vodret, cacciatore per tradizione familiare», spiega Vincenzo Carta.

 All’inaugurazione della mostra Carta e Ferrandu hanno invitato come relatore uno studioso illustre: Nicola Tanda, professore emerito dell’ateneo sassarese e cacciatore. «Ha fatto un intervento di livello eccezionale, ricco di riflessioni acute e graditissimo dal pubblico», dicono i due amici. «Ci ha chiarito le idee, fortificandoci nell’intento». Brandelli di cronaca di una visita alla mostra in compagnia di altri visitatori, ciceroni Carta e Ferrandu. «Queste immagini provengono da Bonorva. Alta qualità: Enrico Tedde, uno dei pochi ad avere scritto sulla fotografia, aveva un compare cacciatore che era anche un provetto fotografo e lui se lo portava dietro dappertutto», illustra Vincenzo Carta «Quest’altra è una bella curiosità, l’ultimo cacciatore professionista thiesino: Antonio Gambella, anni Quaranta». Salvatore Ferrandu: «A Thiesi c’era l’usanza di andare a caccia di pernici alla vigilia di Natale: così i notabili le avevano fresche, pronte per la ricorrenza». Vincenzo Carta: «Ecco un carabiniere-cacciatore in divisa: allora era obbligatoria anche nei momenti di svago». Qualche metro più avanti, sempre Carta: «Questo signore l’avrai riconosciuto: è il poeta Barore Sassu davanti al bar di Piero a Bànari. Sassu aveva dedicato a ciascun cacciatore un’ottava. Le stiamo raccogliendo».

 Una foto di grande formato ritrae la principessa Iolanda di Savoia durante una battuta di caccia sul monte Minerva di Villanova Monteleone agli inizi del Novecento. Dice Carta: «Iolanda era un’amazzone autentica e rifiutava i cavalli troppo docili. Ed ecco il padre del professor Antonello Vodret in una battuta a Capoterra nel 1914 e suo figlio a Montresta quarant’anni dopo. Abbiamo anche un filmato del figlio, lo stiamo catalogando insieme con le poesie di Barore Sassu. Quest’altro è il generale Giuseppe Musinu con il suo attendente».
 Salvatore Ferrandu si sofferma sul vestiario: «Osserva questo copricapo: sa gigìa tunda o gigieddu. Noi diciamo gigìa e non cicìa. Oppure berrita tunda. Era il cappello degli artigiani: fabbri, falegnami, muratori. Ma gli uomini ritratti qui erano contadini e lo usavano lo stesso». Castiadas anni Quaranta, battuta di caccia nella colonia penale. «I notabili di Thiesi arrivavano fino al Sarrabus, alla ricerca di cervi e dàini», racconta Carta. «Adesso siamo di fronte alle foto di Peppino Ferrandu e si nota il cambiamento di qualità».

 Le immagini spesso sono documenti in grado di smentire false dicerie. Ancora Carta: «Vedi questa del 1938, con un ragazzo chiaramente sotto sforzo sotto il carico di un bestione di cinghiale. Eppure si continua a dire che in quel periodo in Sardegna non c’erano cinghiali di grossa taglia». Altra curiosità, un prete armato: «Siamo nel 1948, lui è don Demontis, parroco di Torralba», dice Carta. «A proposito di religione abbiamo scoperto che il protettore dei cacciatori non è Sant’Umberto ma San Eustachio. Lo abbiamo desunto da uno studio di Vittorio Pons de Leon». Interviene una visitatrice. È una ragazza di Osilo: Antonella Chessa, fisioterapista a Sassari: «Sento parlare di arte ma ho sensazioni molteplici e piuttosto inquietanti. La prima impressione è stata di spavento per la morte violenta di tutti questi animali. Poi ho osservato i volti dei cacciatori: occhi di uomini buoni. Inoltre c’è l’aspetto fotografico in sé, straordinario sotto tutti i punti di vista, una “summa” incredibile. Sto tentando di capire: cerco la sintesi tra la morte che vedo fotografata e gli sguardi di uomini buoni».

 Le risponde Vincenzo Carta: «La caccia è nel Dna dell’uomo. Può darsi che scatti anche in te, prima o poi. Con Salvatore abbiamo eliminato le immagini di sangue. I grandi carnieri sono riferiti agli inizi del secolo scorso. La nostra ricerca si basa su altri punti di riferimento, il cacciatore nel suo complesso. La caccia è una forma di aggregazione, anche di poesia. Ma su questo mondo di estremo interesse si è creata un’immagine falsa. La mia priorità in materia è questa: prima il selvatico, poi i cani, ultimo l’uomo. Se tu osservi le foto di oggi, invece, ritraggono quasi soltanto i cacciatori e le prede. Li ho accusati di fotografare pochissimo i cani».
 Antonella Chessa: «Potrebbe essere una nota di balentia». Ma Vincenzo Carta la vede diversamente: «È la malattia dell’apparire. Un tempo c’era più semplicità e fierezza. Fino agli anni Sessanta i bracconieri non esistevano o quasi. Per alcuni il cacciare era una forma di sostentamento, c’è gente che ha fatto studiare i figli, grazie alla caccia». Antonella Chessa saluta con un augurio: «Spero che questa mostra giri».
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