La Nuova Sardegna

Oristano

Sudore, polvere e la fede che non muore

di Enrico Carta
Sudore, polvere e la fede che non muore

Cabras, il simulacro di San Salvatore portato dai fedeli riposa nuovamente nella chiesa di Santa Maria Assunta

05 settembre 2016
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CABRAS. I mortaretti all’arrivo fanno tanto rumore. Quasi nascondono gli affanni di chi ha appena concluso la sua fatica. Si insinuano tra le voci che intonano is coggius, i canti tipici che si levano all’interno di Santa Maria Assunta per sancire la pittoresca fine della festa. San Salvatore è al sicuro, nel suo spazio ritagliato tra le mura della chiesa lagunare dove il simulacro riposerà per un altro lungo anno, restando vivo nei pensieri dei cabraresi che all’alba di oggi, con la processione delle donne, porteranno a compimento il secolare rituale di devozione, fede e identità.

Proprio gli scoppi dei mortaretti avevano dato il via alla corsa degli Scalzi che hanno sciolto la loro promessa e lasciato ancora una volta le loro orme variegate nella polvere. Arrivati il giorno prima nel villaggio campestre che del Santo porta il nome, hanno compiuto la strada inversa riportando in salvo Santu Srabadoi e salvandolo dall’assalto dei mori. La corsa infatti è una riproposizione di un episodio che si perde nella leggenda nata mezzo millennio fa quando le incursioni saracene sulle coste sarde erano la quotidianità. Fu allora che i cabraresi, a piedi nudi e come un esercito compatto, misero a segno un doppio colpo. Salvarono il simulacro e la polvere che i loro passi sollevavano convinse gli invasori a riprendere la via del mare, temendo di trovarsi di fronte una milizia di dimensioni molto superiori.

Storia, forse. Storia come quella che ancora ieri hanno scritto gli ottocento curridoris, con le loro gocce di sudore che si perdevano nei quattro chilometri di strada sterrata e nei tre chilometri di asfalto che dal villaggio li hanno portati sino a Cabras in via Tharros dove li attendevano il parroco don Bruno Zucca e i confratelli.

La benedizione del sacerdote al Santo, al vessilo e ai suoi pretoriani nel tracciato circondato da due ali di folla incessante lungo tutti e sette i chilometri della corsa ha fatto rallentare le loro gambe affaticate che hanno poi proseguito in processione sino all’ingresso nella chiesa distante poche centinaia di metri.

Ed eccoli allora gli spari a sancire il buon esito della festa, andata avanti per alcuni giorni e destinata a svanire nel cielo assieme al fumo dei mortaretti. All’alba di oggi l’ultimo atto coi soli volti e passi femminili che accompagneranno Santu Srabadoeddu farà calare il sipario. I mori sono un ricordo lontano, di altre epoche. Resta la devozione, scritta senza lettere in quei piedi segnati dalla fatica e in quegli abiti appena due giorni fa candidi e oggi impolverati.

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