La Nuova Sardegna

Oristano

Dalla campagna il lamento di chi si sente abbandonato

di Caterina Cossu
Dalla campagna il lamento di chi si sente abbandonato

Uras, gli effetti del ciclone Cleopatra hanno aperto ferite che in alcune zone sono ancora fresche La denuncia di una madre: «Nessun aiuto dalle istituzioni, andiamo avanti grazie agli amici»

23 aprile 2014
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URAS. «Qui non ho visto un perito che stimasse i danni della casa. Non è arrivato mai un pasto caldo e il resto dei viveri siamo andati a prenderceli. Così come il vestiario per le bambine o gli elettrodomestici. Nessuno è passato a chiederci di cosa avessimo bisogno, in campagna. Abbiamo eretto noi il muro per proteggerci dal canale che passa di fianco a casa, pezzo a pezzo e con le nostre sole forze. E io ora guardo quel muro e prego che si faccia nostro angelo, se dovesse tornare a piovere forte e dovessimo rischiare nuovamente di morire per un’alluvione».

Se in paese l’emergenza ancora non è rientrata, nelle campagna di Uras è allarme rosso. Elisa Mura è sposata dal 2009 e da 8 anni vive nell’agro che confina con Terralba. Ha due bambine, di 3 e 5 anni, «una ragione in più per ricominciare a vivere» dice, perché «a noi, anche se le istituzioni ci hanno dimenticato, non ci spezza nessuno, nemmeno Cleopatra».

Il suo è uno dei casi più eclatanti della gestione ancora insufficiente e ingarbugliata della macchina post alluvione. «Il fango ci ha spazzato via tutto — racconta, ricordando il tragico 18 novembre —. Ci ha salvato mio marito verso le 17,30 e non certo i soccorsi. Abbiamo chiamato, ma i vigili ci hanno detto che l’acqua era già alta e non sapevano come arrivare».

In casa nessuno sapeva nulla. «Eravamo tranquille, io e le bambine, a giocare in salone — riprende —, facevamo una casetta con le costruzioni, quasi un segno del destino. Ci ha avvisato mio cognato che il livello dei canali e del rio Mogoro era troppo alto e bisognava evacuare. È stata una questione di attimi». La casa di campagna, costruita negli anni ’80 come casolare agricolo, è al piano terra. «La forza dell’acqua faceva mulinello. Alle spalle della casa c’è il canale, l’acqua è uscita tutto d’un colpo, trascinando il fango».

A vivere in campagna la famiglia non è ancora tornata, dal 19 novembre la loro casa è il salone della nonna. Solo il capo famiglia, che lavora in un’azienda agricola, fa la spola, «per controllare ciò che ci resta». Per il resto, c’è la solidarietà dei privati. «Possiamo contare sugli amici, che ci danno una mano con i lavoretti e nel caso ci serva qualcosa — aggiunge ancora Elisa Mura —. Ci sono i genitori, che hanno fatto i finanziamenti per ricomprare i mobili e fare i lavori».

Ma per le istituzioni, il voto è un’insufficienza piena. «Quando siamo andati a prendere quel che ci spettava degli aiuti, è stato umiliante. Per esempio, ci sono volute ore di fila per avere qualche vestito per le bambine. E anche io ho avuto i buoni per i sacchi di cemento, ma qualcuno mi spieghi a cosa possono servire a persone che hanno la casa devastata quattro sacchi di cemento a testa».

Ogni giorno che passa dall’alluvione, la famiglia si ripete che manca poco a tornare a casa. «Ma l’emergenza dopo 5 mesi sta aumentando, invece che diminuire — conclude la donna —. Abbiamo perso tutto il passato in un attimo e non sappiamo se quello che stiamo ricostruendo verrà nuovamente spazzato via».

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