La Nuova Sardegna

Olbia

Armi sui traghetti, il segreto di Stato fa affondare l’inchiesta

di Giampiero Cocco
Armi sui traghetti, il segreto di Stato fa affondare l’inchiesta

Il trasferimento del carico da Santo Stefano avvenne il 19 maggio del 2011. Impossibile sentire i testimoni: la procura di Tempio chiede l’archiviazione

06 aprile 2013
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LA MADDALENA. La ragion di Stato fa calare il sipario sull’inchiesta, avviata dalla procura della Repubblica di Tempio, sul trasferimento illegale di un gigantesco carico di armi e munizioni prelevato dai bunker dell’isola di Santo Stefano e destinato, già dal 1996 per ordine dei giudici, alla distruzione. Il magistrato inquirente, Riccardo Rossi, all’ennesima apposizione del segreto di Stato da parte del Governo per «inderogabili e superiori esigenze di sicurezza nazionale», ha deciso di chiudere lo spinosissimo e imbarazzante caso con risvolti internazionali chiedendo l’archiviazione al gip del tribunale di Tempio.

I testimoni scomodi. Un provvedimento annunciato da tempo, considerato che i personaggi che avrebbero dovuto deporre, in qualità di «persone informate dei fatti» erano il capo di Stato maggiore della marina militare, l’ammiraglio di squadra Bruno Branciforte, in quanto responsabile della polveriera- bunker di Santo Stefano, l’ex presidente del comitato militare Nato e attuale ministro della Difesa, l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, e gli ufficiali dei servizi segreti militari che gestirono, in prima persona, il gigantesco trasferimento di armamenti dall’isola della Maddalena verso la meta finale.

La destinazione. Nessuno (ormai) lo dirà, ma quel prezioso carico di armi – si stima che il valore complessivo degli armamenti superi i cento milioni di euro – venne sbarcato nel porto di Bengasi, nascosto tra i generi di “supporto logistico” e consegnato ai diversi comitati che dirigevano gli insorti libici di varie etnie e fazioni (per non scontentare nessuno) che, nella primavera araba del 2011, combatterono e sconfissero le agguerrite milizie guidate dai familiari del defunto rais libico Muammar Gheddafi.

Le armi russe. Le armi facevano parte del colossale carico di missili, munizioni, razzi e fucili mitragliatori kalashnikov stoccati per anni nei tunnel di Santo Stefano su ordine della magistratura. Quelle armi erano state sequestrate il 13 marzo del 1994 nello stretto di Otranto. Viaggiavano sulla nave Jadran Express ed erano destinate al mattatoio dei Balcani.

Dietro il traffico c’era l’oligarca russo Alexander Zhukov che venne arrestato, ma poi uscì pulito perché al processo fu prosciolto per difetto di giuristizione. Un vero e proprio tesoro destinato alla distruzione (mai disposta dai vertici militari) su ordine della magistratura torinese e che servì come merce di scambio, nel maggio del 2011, al governo Berlusconi che aveva riconosciuto il Cnt (consiglio nazionale di transizione) che guidava la sommossa contro Gheddafi. L’Italia, con il ministro degli Esteri Franco Frattini, fu il primo tra gli Stati a riconoscere l’autorità del Cnt, assicurandosi la prosecuzione dei contratti in essere per la fornitura di gas e petrolio e le commesse per la realizzazione, in Libia, di infrastrutture pubbliche e autostrade.

Polveriera a bordo. I quattro container militari, stipati di armi, furono trasferiti da Santo Stefano su navi passeggeri della Saremar e della Tirrenia, all’avvio della stagione turistica. La notte del 19 maggio il carico bellico venne imbarcato sul traghetto per Civitavecchia, stivato in un traghetto sul quale avevano preso posto 725 persone tra passeggeri e equipaggio. Tra questi c’erano 122 bambini e 87 anziani, tutti ignari del carico pericoloso. Modalità di trasporto vietate dalle normative internazionali e giudicate «problematiche per la sicurezza» dagli stessi ambienti militari. Da Marisardegna, però, rassicurarono che «tutte le armi erano state rese inerti già prima della partenza».

Fu l’unica ammissione, poi ritrattata, dell’avvenuto trasferimento di armi a bordo di navi passeggeri, mentre i container furono accettati a bordo dal comandante della Tirrenia perché nella bolla di accompagnamento erano indicati genericamente «pezzi di ricambio».

Ma qualcosa non quadrò sin dal primo momento, in quanto nella stiva rimasero, a guardia del prezioso carico, una squadra di militari armati. A Santo Stefano i container vennero riempiti con parte dei 30mila fucili mitragliatori AK-47, 32 milioni di proiettili, 400 missili terra-aria anticarro Spigot AT-4 con 50 postazioni di tiro, 5mila razzi Katiuscia da 122 millimetri, 11 mila razzi anticarro Rpg.

Il passaggio nel Lazio. La mattina del 20 maggio il convoglio militare, sbarcato a Civitavecchia, (4 camion più due auto dell’Esercito, di scorta) si sarebbe diretto verso l’ex poligono militare di Santa Severa.Da quel momento le armi si volatilizzarono.

L’inchiesta. In seguito alla pubblicazione della notizia da parte del nostro quotidiano, la procura della Repubblica di Tempio nel mese di giugno avviò un’indagine. I primi a finire sul registro degli indagati furono due alti ufficiali della Marina militare, che si trincerano dietro l’inopponibile segreto militare. Anche i cronisti che si erano occupati dello spinoso caso sono stati sentiti a verbale dal magistrato inquirente. Rossi aveva già ricevuto un primo rifiuto dai vertici militari a essere sottoposti a interrogatorio insieme all’annuncio dell’imminente apposizione del segreto di Stato sull’intero affaire. Le diverse ipotesi di reato contestate dalla Procura gallurese ai due soli indagati dell’inchiesta erano quelle di attentato alla sicurezza nei trasporti e falso in atti pubblici.

L’imbroglio. La magistratura torinese, l’unica in possesso della lista delle armi sequestrate nel 1994 e finite a Santo Stefano, nel 2006 aveva disposto la distruzione dell’intero arsenale posto sotto sequestro.

Una richiesta, questa, che rimase lettera morta per anni, senza che nessuno potesse imporre l’esecuzione di quell’ordinanza. Poi, nel 2011, ecco arrivare la decisione dei vertici militari e del Governo: spedire in terra d’Africa buona parte di quegli armamenti che, all’Italia, erano costati zero lire e che creavano un serio problema per il loro smaltimento. Con un decreto legge (mai ratificato) venne disposta l’acquisizione delle armi al patrimonio dello Stato, e quindi il suo utilizzo. Ma è proprio la mancata ratifica del decreto legge ad aver innescato un’inchiesta, chiusa con il segreto di Stato.

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