La Nuova Sardegna

Nuoro

I vicini: «Non abbiamo sentito gli spari»

di Valeria Gianoglio
I vicini: «Non abbiamo sentito gli spari»

Al processo per l’omicidio di Cisco Chessa, una sfilza di compaesani dicono al pm di non avere visto né sentito nulla

19 novembre 2015
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NUORO. C’è chi, come Salvatore Gesuino Baragliu e Aldo Chessa, spiega che era stata colpa del forte vento, che quella notte aveva battuto forte sulle case di Orune, se quel 18 maggio del 2005 non aveva sentito le fucilate che avevano ucciso Cisco Chessa. Chi, come Maria Gonaria Canu, racconta di aver pensato allo scoppio di alcuni petardi. E anche chi, come Giovanna Carai, ammette che se non ci alza dal letto, quando si sentono alcuni spari, è anche perché «in paese è consuetudine sentire colpi di arma da fuoco». Mentre un altro teste, l’anziana Letizia Agata Chessa, davanti al pm si rimangia in parte quanto aveva sottoscritto nel 2005, e dice che «quella notte avevo sentito qualche rumore, ma avevo pensato che fosse caduto un pannello del ponteggio davanti a casa».

Comincia con una sfilza di “non so, non ricordo”, l’udienza numero tre al processo per l’omicidio di Francesco “Cisco” Chessa, straziato da sei colpi di fucile il 18 maggio del 2005, e finisce con il pm Andrea Vacca che al presidente Giorgio Cannas dice, sconfortato, che «nonostante l’esito dell’udienza di oggi, ho il dovere di riprovarci alla prossima udienza, a sentire i vicini di casa». E così, tra un teste, un “non ricordo e non so” e l’altro, si chiude un’udienza che si rivela sostanzialmente inutile, quantomeno per l’accusa, per scavare dietro la morte di Cisco Chessa. L’accusa ci prova a più riprese, a tirare in ballo quello sfondo chiamato “faida”, che secondo la Procura sarebbe alla base del delitto, ma nessuno dei testimoni dice di conoscerne nemmeno un piccolo pezzetto. La sequenza dei “non so” comincia con Francesco Monni, 40 anni, che il giorno del delitto aveva visto Cisco Chessa «perché mi stava aiutando a fare alcuni lavori di ristrutturazione a casa mia», ma poi, rispondendo alla domanda del pm, dice che «No, Cisco non aveva paure o timori particolari. La faida? Sono fatti noti, che sapete tutti, ma per il resto altro non so. So che era stato ucciso il fratello».

«Lei sa se Chessa fosse schierato con qualche famiglia della faida? – insiste il pm – sa che rapporti aveva con Giovanni Deiana, noto Banniolu? Con Pietro Coccone? E con Ivo Carta?». Sono gli stessi interrogativi, e gli stessi nomi che l’accusa fa ai vicini di casa di Chessa che ieri depongono in udienza. Gli stessi nomi dei quali il pm chiede conto, senza avere alcuna risposta utile, ad Antonio Baragliu, a Letizia Agata Chessa, a Luigi Baragliu, a Maria Gonaria Canu, a Giovanna Carai, a Salvatore Gesuino Baragliu, e a Noemi Carta, sorella, quest’ultima di quell’Ivo che era stata ucciso pure lui a Orune. «Che rapporti aveva mio fratello con Cisco Chessa? – dice, la giovane – Non glielo so dire. E no, non so nulla dell’omicidio Chessa, né se mio fratello fosse stato accusato, non c’è mai stata questa voce. Mio fratello è stato ucciso il 14 luglio del 2006 e ancora non so perché».

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